Recensione: The Last Neanderthal

Di Stefano Ricetti - 29 Aprile 2014 - 9:15
The Last Neanderthal
Band: Ogre
Etichetta:
Genere:
Anno: 2014
Nazione:
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72

Arduo rimanere impassibili di fronte alla potenza grafica del disegno greve e minimale di The Last Neanderthal, quarto full length degli americani Ogre, uscito sotto l’egida dell’italianissima Minotauro Records.

Il combo del Maine si forma nel 1999 nel momento in cui Ed Cunningham (basso e voce) si unisce a Ross Markonish (chitarre) e Will Broadbent (batteria) dando il via a un progetto musicale che omaggia le sonorità più cupe e l’amore per i magici Seventies. Dopo il tipico demo d’ordinanza i Nostri realizzano il primo disco nel 2003, in regime di autoproduzione, dal titolo Dawn of the Proto-Man. Il nome del gruppo comincia a girare tanto da arrivare fino in Giappone, alle orecchie della Leaf Hound Records, etichetta per la quale gli Orchi a stelle e strisce fanno uscire il secondo e il terzo Loro lavoro: Seven Hells nel 2006 e Plague of the Planet nel 2008.

Dopo sei lunghi anni è la volta di questo nuovo The Last Neanderthal, al solito accompagnato da un packaging d’eccezione, come ormai è prassi per la label di Marco Melzi. La copertina del Cd è apribile e realizzata in cartone massiccio, la costina esterna è a mo’ di Lp in miniatura e il tutto si accompagna a un poster di 24 x 36 cm con rappresentato su di una facciata, per intero, il sinistro cavernicolo campeggiante in copertina mentre la seconda è dedicata ai testi e alle note tecniche di prammatica.          

Dal punto di vista musicale si parte con la strumentalissima Shadow Earth, poi è la volta di Nine Princes in Amber, il pezzo che da solo regge l’intero peso di The Last Neanderthal: mood Doom Metal applicato alla melodia con risultati esaltanti, a partire dal bridge passando per le schitarrate pesantissime di Ross Markonish per finire con la voce malata di Ed Cunningham. Bad Trip è un macigno Doom degno del miglior Paul Chain dei tempi d’oro che lambisce i Black Sabbath nella parte rallentata centrale. Son of Sisyphus perpetua il messaggio nero degli Ogre che poi per cinque minuti si prendono una pausa fottutamente anni Settanta, con risultati dignitosi, proponendo una cover dei propri omonimi provenienti dall’Idaho in voga, a livello di Rock band, in quel periodo, dal titolo Soulless Woman.

La calma relativa dura però poco: Warpath è un ulteriore tuffo in quello che i tre yankees sanno fare meglio, ancora una volta solleticando la cifra stilistica di quel genio italico che risponde al nome di Paolo Catena da Pesaro. Da brivido la parte celestiale che chiude il brano, a dimostrazione della forza narrativa fatta musica degli Ogre. Peculiarità che, a giudizio del sottoscritto, dovrebbero e potrebbero approfondire nel prossimi lavori, cosa che peraltro fanno, ma solo per due minuti, nella successiva  strumentale White Plume Mountain. Chiusura ad appannaggio della lunga litania The Hermit, canzone che congeda l’album all’insegna del Doom. Per l’occasione il suono della chitarra di Ross Markonish possiede la stessa grazie della clava dell’inquietante orco raffigurato nella copertina a opera dello stesso drummer Will Broadbent.

Ogre: onesti portatori sani del Verbo oscuro…

 

Stefano “Steven Rich” Ricetti

 

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