Recensione: The Nexus

Di Roberto Gelmi - 13 Maggio 2014 - 12:46
The Nexus
Band: Amaranthe
Etichetta:
Genere: Power 
Anno: 2013
Nazione:
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70

Di supergruppi a quanto pare ha sempre fame il mondo, ecco allora che dall’amata Svezia sboccia una band di stelle color amaranto, dal sound adamantino. Nato da un’idea del cantante Jake E Berg (Dreamland, Dream Evil) e del chitarrista Olof Mörck (Dragonland, Nightrage), il progetto si concretizza con l’ingresso della bella e talentuosa Elize Ryd (già in tour con i Kamelot), seguita da Andreas Solveström (Cipher System, Within Y) e dal batterista Morten Løwe Sørensen (The Cleansing, Mercenary). Il bassista Johan Andreassen (Engel) si unirà successivamente al combo, giusto in tempo per registrare l’album di debutto.
Il primo nome scelto dalla band era Avalanche, poi, per i soliti risibili problemi di copyright, si mantenne il numero di lettere e l’iniziale alfabetica, optando per il più aggraziato Amaranthe, il fiore che non appassisce mai, cantato (tra gli altri) dai Nightwish di Dark Passion Play.
Il self-titled del 2011 si piazzò su buone posizioni nella classifica svedese e finlandese, ma la critica si divise inevitabilmente tra convinti sostenitori e scettici. Punto dolente il sound ibrido del gruppo che miscela metalcore, dance e power metal, commistione che, se fa storcere il naso ai puristi, trova plausi in chi cerca un minimo di originalità e ormai ha compreso che il metal senza ibridazioni non può sopravvivere.
Il vero tratto identificativo della band resta, tuttavia, la presenza di tre cantanti in line-up (una voce femminile in clean, un grunter e un cantante melodico), tanto scenici in sede live, quanto utili a imprimere il combo nell’immaginario collettivo. Quello che colpisce, infatti, non è solo lo scambio delle parti fra i tre diversi timbri, ma il fatto che si punti su un tale numero di cantanti, ognuno con un preciso ruolo (le sovrapposizioni vocali sono presenti, ma non in modo predominante), ed esentati dall’apporto strumentale.
Una band, dunque, “ricca” che fa del superfluo il proprio trademark e rifugge dalla gabbia gotica di certa proposta metal al femminile, con voci soprano e ampollosità inflazionate.
The Nexus è il secondo album in studio (prodotto questa volta dallo stesso Jake E Berg) e, a detta del chitarrista Olof Mörck, presenta «greater contrasts, a more controversial mix of genres, and […] more creative freedoms than Amaranthe» (maggiori contrasti, un insieme di generi ancor più controverso e più libertà stilistiche rispetto ad Amaranthe). In realtà non ci sono grandi novità, escluso un più ampio uso di arrangiamenti pseudo-dance e inserti d’elettronica. I Within Temptation hanno fatto di meglio in The Unforgiving, ma vengono alla mente anche gli ultimi Stratovarius e il mitico e visionario No Limits dei Labyrinth.
Come da previsione, il nuovo disco bissa e supera il successo del 2011 e, anche negli States, il gruppo svedese non manca di far parlare di sé gli addetti ai lavori.

Il full-length si compone di dodici canzoni corte corte, sempre catchy e melodiche, per una quarantina di minuti che scorrono con qualche filler, ma energizzano a dovere l’ascoltatore.
Afterlife” è un’opener che sprizza vitalità e si rifà al moniker “perenne” della band. Al microfono attacca Jake E Berg, poi c’è spazio per i grunt, da ultimo compare Elize Ryd. È già presente il fil-rouge dell’elettricità («So set me free / And this time you’ll be electrified») che percorre l’intero platter e sottolinea la nuova veste “power” del combo svedese. Non mancano certe sonorità djent e involontari (?) richiami ai francesi Venturia. Olof Mörck sciorina un assolo brevissimo e limita le proprie abilità tecniche, messe ampiamente in campo, invece, con i Dragonland.
Un’altra dichiarazione di anelito immortale è presente nel singolo “Invincible” (sul relativo terribile video, così come su quello di “The Nexus” non spendo parola). Il refrain è quasi pop, con synth dance e fill di batteria cadenzati. Le liriche sono un inno al tema stereotipato dell’unione fa la forza («This power runs deep in my soul / I’m invincible / And I will never give in / Nor leave you behind / A frantic wonder, united we’re stronger»).
La titletrack è il brano migliore del lotto, con ritmiche terzinate pesanti e affilate. Il bridge a opera di Jack E è magnetico («I have the will inside my mind / There is a voice I can’t deny»), il ritornello un gioiello di limpidezza, interpretato dalla voce di Elize in veste di prima donna. Pur nel suo breve minutaggio il pezzo è vincente, termina troppo bruscamente, questo l’unico neo.
Theory of Everything” è un inno zuccheroso ambientalista, come da tradizione scandinava («Forced and cruel emotionless electro-hearts / Build greed an mechanical wars»). Il refrain è troppo stucchevole («Let this earth renew / We will wars undo / Make the oceans blue / Paint the heavens with stars»), vanno meglio i testi delle strofe («To a bleak synthetic species we have grown / We’re heading into the unknown»). È curioso, comunque, come una band, che vive di suoni fattizi ed elettrificati, canti della natura e stigmatizzi il cattivo uso della tecnologia.
La seguente “Stardust” non brilla nonostante il titolo galileiano. Un filler che gli Amaranthe potevano in tutta onestà risparmiarci. Il refrain è affidato ancora una volta a Elize, ma anche i testi fanno acqua, con un vago invito al non darsi per vinti nella mai sopita scoperta dell’universo umano («’Cause I won’t give it up / I have seen enough / And I will never stop»). Il break attorno al terzo minuto di metal ha davvero poco, le basi d’elettronica per un attimo hanno il sopravvento, ma tutto si riduce a un istante.
Burn with me” è una ballad con liriche incalzanti e un ritornello iperbolico che farà impazzire i fan più giovani. Niente di nuovo, altra traccia organica al platter. Vero cavallo di battaglia resta “Amaranthine”, tra i momenti più alti del disco di debutto.
Con “Mechanical illusion” si torna su livelli qualitativamente migliori; il brano è tra i più memorabili del disco, grazie a testi ambiziosi («I see a world that’s upside down / […] To end this war / Reset the evolution / Drives us to accept no more / Become what we were before») e un conciso assolo della 6-corde con vaghi cenni malmsteeniani.
Altro centro, “Razorblade”, traccia con un’azzeccata sprezzatura: il ritornello è un invito a saltare selvaggiamente (in sede live!) e i testi rimati assieme all’impiego dell’hi-hat sono una goduria («Going up to the top / Never stop / Never give it up never fall never drop») e giocano sul piacere della ripetizione ad libitum.
Future On Hold” tratta di pulsione di morte («As a part inside of me just want to die […] There’s a monster within me») e del binomio umano-artificiale («Needles and cables plugged into machines / My memory’s fighting / Half man half machine»). Il sound degli Amaranthe va a nozze con tale tematica fantascientifica e tale sinergia salva un brano che non brilla per inventiva.
In “Electroheart” Elize aiuta Jack E sugli acuti; il brano incede con un ritmo da vero rifornimento adrenalinico («Restart Electroheart / Deja vu I fall apart»). Azzeccato il break al min. 2:58, il finale suona invece troppo brusco.
Negli ultimi minuti dell’album troviamo la passabile, ma nulla più, “Transhuman” con testi cibernetici («I’m enhanced a syntethical fire / I am a product of chaos and entropy […] My adrenaline feeds my desire / To become an immortal machine») e tanto di espressioni altisonanti come “silicon seams”, “cosmic fire” et similia.
Diverso discorso per “Infinity”, traccia ispirata, con Elize Ryd sugli scudi nel refrain, dove sfodera la sua potenza vocale nel cantare di nuovo dell’Est deus in nobis («I turn the page in the chapters of life / Infinity keeps me alive»). Da segnalare un verso poetico («Throwing the spear into the heart of the void») e una veloce citazione filmica («Breaking the code’s / Like a mission impossible»).

Per tirare le somme, il secondo capitolo in casa Amaranthe suona più maturo del self-titled di debutto e al contempo indirizza il sound degli svedesi verso lidi ancor più ruffiani e commerciali. La produzione è volutamente perfetta e impersonale, ed è coerente con i testi vertenti sul binomio umano-artificiale. Il talento di Elize Ryd è ormai assodato e il ruolo da protagonista confezionatole da Timo Tolkki nella sua metal-opera Avalon ne è stata la vera consacrazione. Chissà se in futuro anche Mr. Lucassen assolderà la cantante svedese…
Musica per i metallari meno navigati e per i veterani del genere privi di ubbie di sorta.
 

Roberto Gelmi (sc. Rhadamanthys)

 

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