Recensione: The Oblivion Particle

Di Marco Giono - 1 Settembre 2015 - 1:00
The Oblivion Particle
Etichetta:
Genere: Progressive 
Anno: 2015
Nazione:
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75

La cliodinamica è una nuova area di ricerca multidisciplinare che compara eventi passati nel tentativo di trovare schemi ricorrenti per prevedere il domani; potremmo semplificarla con il detto “la storia si ripete”. Clio, la musa greca della storia, approverebbe esasperata. Alcuni Israeliani sostengono convinti di aver costruito su quella nuova teoria una macchina del tempo, però per il momento la tengono nascosta al mondo (tutto vero, almeno la notizia esiste realmente). Se applicassimo quella teoria alla storia degli Spock’s Beard e di come sia sono sopravvissuti ai giorni nostri? Molto probabilmente la barba di Spock tornerebbe in quella dimensione cliodinamica di non esistenza a cui apparteneva prima di essere generata dalla fervida immaginazione di Neal Morse durante un party selvaggio tanto tempo fa. Se prendessimo infatti in considerazione l’allontanamento dello stesso Neal Morse, unico compositore del gruppo, la macchina del tempo israeliana singhiozzerebbe all’apparire all’orizzonte di Feel Euphoria (2003), per poi rallentare vistosamente alla pubblicazione dell’album intitolato X (2010), infine eclissandosi in seguito all’ottimo Brief Nocturnes and Dreamless Sleep (2013) che rispondeva all’ennesima beffa dell’impietoso destino, l’abbandono di Nick D’Virgilio (voce e batteria) per il Cirque du Soleil. Gli Spock’s Beard riescono ad infliggere una seria lezione alla statistica grazie a ottima musica e ad una sorprendente capacità di reinventarsi. 

Ai nostri giorni The Oblivion Particle è l’ultima singolarità prodotta dal gruppo americano, l’ennesimo tributo al genere progressive come rilettura di schemi passati per creare qualcosa di eternamente presente.  Dai brevi notturni elettrificati di notti insonni ci ritroviamo in note alchemiche elettriche fluttuanti che illuminano la prima traccia intitolata “Tides of Time”. Il brano ricorda per struttura quanto già fatto nell’album precedente, ma sembra ugualmente tutto nuovo; le note sfrigolano sulle corde delle chitarre di Alan Morse, rimbalzano allungandosi sulla tastiera di Ryo Okumoto, mentre la voce di Ted Leonard è in grado di piegare il tempo con la solita eleganza. Tuttavia è dalla seconda traccia che gli Spock’s Beard superano le famose 88 miglia orarie a bordo della DeLorean(necessarie per attivare il flusso catalizzatore della DeLorean) e li ritroviamo a regalarci armonizzazioni vocali degni dei migliori Beach Boys, sfiorando in alcuni casi i Genesis, senza mai dimenticare la lezione di armonia/ritmo dei Beatles, per poi alternare sfuriate elettriche e momenti più meditati. “Minion” è una perla disseppellita in pianeti antichi che vogliono resistere a qualsiasi logica temporale. Altro esempio di ambiguità temporale è dato da “Disappear”, ultima traccia che si muove in note di piano e implode in un coro divinamente disarmante. Si trasformano di nuovo in “Bennet built the time machine” dove Jimmy Keegan, usualmente alla batteria, veste il ruolo di cantante, la sua voce ci teletrasporta verso Atlantide, la leggenderia città scomparsa sembra davvero ad un passo, qui poi rimandano alle strutture dei cori degli Herman’s Hermit nel brano “I’m Into Something Good” (1964) per poi muoversi in note sintetiche il tutto riletto dalla magica barba di Spock. 
Com’è il resto? Il gruppo americano non sbaglia nulla. Così riesce ad abbagliarci con il crescendo di “Hell’s not enough”, l’ossessiva “Get Out While You can” sorprende nei dettagli e ancora quell’avvio di piano quasi scherzoso di “The Center Line” a dialogare con il basso di David Meros straborda in una sorta di colonna sonora epica e rock come se volessero rispondere ai migliori Muse creando però nuove illusioni. Se non vi basta vi consiglio un giro nel oscurità sinfonica di “Better way to fly” che dopo aver corso in note sintetiche chiude con voci che si moltiplicano echeggianti sul cantato di Ted Leonard per dissolversi in elettricità. Chiudo con “To be free again” perché in fondo è un bellissimo compendio di quanto descritto finora e funziona magnificamente. 

Con The Oblivion Particle ricorrono i vent’anni dal primo album d’esordio del gruppo americano, ma non vi sono fuochi d’artificio o torte in faccia perché in fondo l’unica celebrazione possibile è quella di fare musica al meglio delle proprie possibilità, sperando in fondo che la prossima sia un’ottima annata. Eliminiamo da subito ogni dubbio, questa è ancora un’annata più che buona. Certamente gli antichi fasti sono irraggiungibili, ma il presente non è certo da dimenticare. Il loro progressive alterna sfuriate strumentali ad aperture melodiche in bilico tra i generi, ma è da rimarcare sia l’equilbrio raggiunto tra le parti che la sensazione di come ogni singola nota assuma il carattere di necessità, malgrado mediamente il minutaggio dei loro brani sia piuttosto generoso. La cosa che invece meno mi ha convinto è che il gruppo americano talvolta (“To be free again” e “Get Out While You can”) soffra di eccesso di confidenza creando passaggi e cambi di ritmo che rendono i brani eccessivamente frammentati, perdendo così il ritmo nella trama. 

In ogni caso gli Spock’s Beard, pur non allontandosi troppo da quanto fatto nell’album precedente, sanno come fare ancora ottima musica lasciandosi ascoltare con facilità sin dai primi ascolti, aiutati anche da una produzione cristallina e dal solito talento compositivo.

MARCO GIONO

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