Recensione: The Path Beyond the Moon

Di Stefano Usardi - 19 Settembre 2018 - 9:00
The Path Beyond the Moon
Band: Beriedir
Etichetta:
Genere: Power 
Anno: 2018
Nazione:
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77

Dalle lande bergamasche arrivano i Beriedir, ardimentoso quartetto attivo già da qualche anno (nascono nel 2009 col nome di Chaos Edge proponendo un death melodico, cambiando poi nome e genere nel 2012) che a tre anni dall’EP “The Line” pubblica il debutto “The Path Beyond the Moon”. Il genere è un power metal melodico, sfacciato e propositivo in cui le tastiere fanno il bello e cattivo tempo, che mi ha intrigato fin da subito con la sua carica enfatica e le melodie trionfali, scandite da una sezione ritmica quadrata e precisa e da chitarre che, seppur in secondo piano, donano comunque una certa consistenza ai pezzi. Ora, giusto per chiarire, lasciatemi dire che i Beriedir (parola che in sindarin, uno dei linguaggi elfici della Terra di Mezzo, significa guardiano) non sono qui per inventare alcunché, né per affascinarvi con trovate pazzesche o architetture sonore complesse, riff concentrici o tempi dispari a profusione: “The Path Beyond the Moon” non è sicuramente quello che si può definire un album sperimentale, e per tutti i suoi cinquanta minuti abbondanti si avverte il profumo di deja vù (diciamo che ci muoviamo nel territorio di gruppi come Labyrinth, Vision Divine e Dragonforce, così da capire un po’ il tono generale dell’album), eppure, nonostante una certa monotonia di fondo, risulta comunque un album trascinante, che fa del coinvolgimento immediato il suo tratto distintivo e il suo principale pregio. La batteria tiene tutti in riga con battiti secchi e diretti, basso e chitarra si fondono per donare profondità e sostanza all’amalgama finale e le tastiere si occupano di creare le melodie, dispensando trionfalismo e magniloquenza a ogni piè sospinto senza, però, eccedere con le sbrodolate di note o gli svolazzi neoclassici.

Una volta superata la superflua “Intro” si parte con la maestosa apertura di “The Line”, ottima cavalcata di doppia cassa in cui si mettono subito le cose in chiaro su ciò che ci aspetterà per la restante oretta scarsa: ritmi arrembanti e melodie cafone a pioggia, sorrette da una base graffiante ed inframezzate da un solo di tastiere dai velati richiami prog. Si prosegue con “Skies of Infinity”, sostenuta da una melodia, se possibile, ancora più tronfia e sborona della precedente: l’andamento agile si tinge di una certa zuccherosità di fondo, soprattutto durante il ponte e il ritornello, mentre il duello di assoli dona una certa solennità al tutto prima di rituffarsi nel mondo delle melodie gioiose e nel solito finale enfatico. “Prime Mover” abbassa un po’ il livello di esaltazione per muoversi su binari più canonici per un classico power melodico, ancorandosi su tonalità comunque raggianti e festose che non scendono mai sotto i livelli di guardia, mentre “The Blessing” si screzia di una nuova tensione, almeno nella prima parte. Le velocità si mantengono arzille ma si permeano di una certa frenesia che, però, scompare come neve al sole in concomitanza con il ritornello. Anche qui il rallentamento che ospita la sezione solista dona alla canzone una certa dose di maestà, picchiando sul tasto del trionfalismo musicale prima di spingere sull’acceleratore per il finale. “Damnatio Memoriae” parte cafonissima, dispensando arroganza con i suoi ritmi quadrati e marziali, mentre il ritornello si carica di una notevole sfacciataggine (anche grazie a una resa vocale ai limiti dello sguaiato da parte di Stefano che, però, a mio avviso non potrebbe risultare più azzeccata).
Un’introduzione più drammatica del solito ci presenta “Third Chant”, leggermente più carica di pathos e il cui ritornello riecheggia con successo i versi immortali del sommo Dante, idealmente scolpiti sopra l’ingresso agli inferi nel, per l’appunto, Terzo Canto dell’Inferno. Il rallentamento, anche qui leggermente più cupo del solito, apre al solo di tastiere che a sua volta prelude il climax finale. Si arriva così a “D.R.O.C.” e al ritorno alle melodie potenti a cui i nostri ci hanno abituato nella prima parte dell’album: la canzone si mantiene su velocità abbastanza sostenute, e mentre le tastiere spadroneggiano a tutto campo la chitarra, relegata un po’ in secondo piano, riesce a pretendere la giusta attenzione solo durante l’assolo. “Interstellar”, ennesima cavalcata dell’album, torna ad impennare il tasso enfatico nel lavoro di tastiere coniugandolo con un retrogusto solare ed entusiasta, mentre il solo rimanda ad insospettabili derive più legate agli anni settanta. “Singularity Overture” si rivela un intermezzo sinfonico incombente che apre la strada “Event Horizon”, canzone martellante in cui la chitarra guadagna, finalmente, un posto quantomeno di parità con le tastiere. La traccia si mantiene sulle stesse coordinate fino a metà del minutaggio, aprendosi poi ad una sezione più distesa e sognante che solo dopo il bell’assolo di chitarra torna a sciorinare le melodie sentite in apertura. Gradevole variazione sul tema che, spero, i nostri vorranno sviluppare in futuro. Chiude l’album “The Path to Zenalia”, che sembra seguire le linee guida della traccia precedente tenendo, però, velocità e ritmi più contenuti per indulgere in un trionfalismo meno sfacciato. Anche qui, il rallentamento centrale serve per donare enfasi al pezzo, caricandolo di una solennità più tranquilla  che guadagna corpo pian piano, mentre le tastiere si riappropriano del bastone del comando giusto in tempo per sformare l’ennesima melodia magniloquente – stavolta bissata dalla sei corde – e sfumare tutto nelle liquide note di piano.

Il principale problema degli album come questo, costituiti pressoché interamente da canzoni che bene o male seguono lo stesso schema, è dato in genere dalla sua curva di interesse nel lungo periodo, visto che un album pensato per attirare l’attenzione immediatamente grazie a melodie facili e tracotanti e cori enfatici potrebbe iniziare a stancare altrettanto velocemente. Non ho usato a caso il condizionale, visto che, almeno per quanto mi riguarda, questo calo di interesse non si è ancora verificato nonostante le settimane di ascolto. Pertanto, sebbene tenga a ribadire che “The Path Beyond the Moon” non inventi assolutamente nulla, mi sento comunque di consigliarlo non solo a tutti gli amanti del power più maestoso, ma anche agli ascoltatori che hanno bisogno, di tanto in tanto, di un’iniezione di fresca tracotanza. Ascoltatelo, non ve ne pentirete.

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