Recensione: The Pendulum

Di Francesco Sgrò - 25 Novembre 2015 - 9:00
The Pendulum
Etichetta:
Genere: Heavy 
Anno: 2015
Nazione:
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77

Un artwork dal sapore ottocentesco, che potrebbe essere adatto anche per presentare un racconto partorito dall’oscura immaginazione di Edgar Allan Poe, si pone come convincente biglietto da visita di questo The Pendulum, album che segna il coraggioso esordio dei Master Massive, progetto artistico creato nell’ormai lontano 1993, dal chitarrista svedese Jan Strandh. Avvalendosi del prezioso aiuto fornito da musicisti di ottimo livello, il gruppo scandinavo si affaccia sull’attuale mercato discografico, presentando una prima opera ambiziosa che certamente non passerà inosservata all’attenzione dei sostenitori dell’heavy metal più progressivo e teatrale.
Nonostante l’album si articoli nel corso di ben diciassette tracce, per un totale di oltre un’ora di musica, va riconosciuta al gruppo la bravura di aver allestito un mosaico musicalmente riuscito e per nulla tedioso.

Le decadenti note della tanto breve quanto sulfurea e ipnotica “The Pendulum” inaugurano con successo le trame musicali di un album che si preannuncia da subito interessante, spalancando definitivamente le porte del Metal più classico con la risoluta “Time Out Of Mind”, opener granitica e dalla struttura articolata, dove dominano gli oscuri e dilanianti riff orchestrati dalle tre chitarre, i quali risultano ottimamente supportati da una sezione ritmica precisa e potente, perfettamente evidenziata da una produzione asciutta e curata.
Un breve intermezzo elettro acustico nel quale emerge significativamente l’anima più teatrale del combo scandinavo, precede la successiva e lunga “Four Dreams”, entusiasmante sfuriata metallica, ricca di cambiamenti ritmici che ne impreziosiscono una struttura dinamica e mai banale, confermando nuovamente l’ottimo valore del platter che prosegue con la più ricercata e tribale “The Monastery”, intrisa di atmosfere mistiche e medievali, le quali poi confluiscono con sonorità maggiormente potenti e più vicine al tipico sound degli svedesi, per un risultato finale in ogni caso soddisfacente.
I’m The Prior” è un nuovo breve intermezzo, come in altri momenti del disco mescola atmosfere teatrali a un sound plumbeo e roccioso, il quale resta assoluto protagonista anche nella seguente “Eye Of Silence”. La traccia vede un marcato accostamento a contaminazioni squisitamente doom, le quali sposano perfettamente le classiche melodie ricercate e sapientemente incastonate nel contesto di un album non di facile assimilazione, ma sicuramente di notevole impatto artistico.
Un velo di malinconia caratterizza l’essenza della breve e acustica “Dear Aadham”, atta a placare momentaneamente la furia distruttiva dei Master Massive, che in ogni caso tornano pochi minuti più tardi a mietere vittime con la ruvida “Sovereign Power”, contraddistinta ancora da massicce venature doom, volte a rendere il tutto squisitamente psichedelico e ipnotico.
Un pulsante giro di basso si pone, invece, a spina dorsale della più diretta e ugualmente potente “The Media Place”: la band viaggia su velocità maggiormente sostenute rispetto a quanto ascoltato in precedenza, prima di cedere nuovamente il passo a un ennesimo intermezzo recitativo. Segue la lunga e articolata “Hymn To Yellowhawk”, che evidenzia ancora una volta come la vena creativa del gruppo sia produttiva, alternando ancora con classe momenti granitici a tratti acustici maggiormente introspettivi.
Quasi ormai alla fine dell’opera, la seguente “Wishing Well”, abbraccia ancora sonorità cupe e cadenzate, dalle quali filtra comunque un po’ di melodia che ne caratterizza il riuscito ritornello, prima di far confluire il tutto in un sognante e mistico break strumentale di ottima fattura.
Ancora un pregevole momento acustico si concretizza successivamente nelle note della solenne “Broken Hearts”, mentre “Dark Prophecy” torna su lande tipicamente heavy e oscure, accompagnando così il fruitore verso gli ultimi momenti di questo esordio, che trova il proprio buon epilogo nelle violente “Showdown” ed “Elegy”, poste a sigillo di un album perfettamente realizzato e scorrevole, nonostante sia, a ogni modo, un disco non di facile ascolto, sconsigliabile a chi, invece, sia alla ricerca di qualcosa di più spensierato e festoso.

 

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