Recensione: The Praise Of Madness

Di Matteo Donati - 6 Ottobre 2009 - 0:00
The Praise Of Madness
Band: Phaenomena
Etichetta:
Genere:
Anno: 2009
Nazione:
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60

Quello che mi trovo a recensire è un prodotto di valida fattura, alta complessità e sicuramente frutto di enormi sforzi compositivi. Per coloro che sono già passati alla lettura del voto finale voglio precisare che il punteggio assegnato non trova la sua motivazione nella scarsità dell’opera, come già detto di talentuosa progettazione, bensì nella vacuità del prodotto finale.
Prima di tirare le somme di quest’ultima fatica dei “Phaenomena”, trovo doveroso introdurre chi sono i componenti della Band Bolognese formatasi nell’ormai lontano ’97. Dopo una lunga serie di cambiamenti dalla formazione originale, quella che approda oggi al primo lavoro autoprodotto è la seguente: Pasquale Barile alle tastiere, Michele Luso al basso, Fausto de Bellis alle chitarre, Giovanni Semeraro alle percussioni e Stefano Sbrignadello alla voce.

Già dal primo ascolto risulta chiaramente percepibile un’ispirazione di stampo sinfonico/progressive, distinguerete a tratti i consueti capiscuola di molti gruppi prog italiani e non: tastiere e batterie che rievocano atmosfere care ai Dream Theather si alternano a malcelati ammiccamenti ad altre band come i Symphony X. Nulla di nuovo dunque, penseranno i più tra voi. In realtà l’innovazione è presente o, per meglio dire, vi sono buone intuizioni in alcune delle tracce che compongono questo “The praise of madness”. Mi riferisco in particolare al terzo brano “Overture”. Qui l’ uso di sintetizzatori e sonorità orientali, alternate ad incalzanti crescendo di complessità ritmica, sottopongono all’attenzione dell’ascoltatore un pregevole senso di novità. Spiccano le ottime percussioni ed il saggio ed estroso uso di tastiere, a mio avviso vero motore della band.
La quarta traccia “Incipit Delirii” è la prima che obbliga a rivedere gli entusiasmi iniziali: una spigolosa distonia data dalla mancata fusione del cantato rispetto alle melodie infrange il piacevole scenario tanto faticosamente intessuto dal piano.  Non sono qui in discussione le doti vocali del cantante, tuttavia risulta particolarmente disomogeneo l’amalgama musicale conferita dalla personalità lirica di Sbrignadello. Si ha l’impressione generale che la voce sia stata quasi ripensata rispetto al canovaccio principale, e che le finalità strumentali si mantengano su di un binario ben separato rispetto a quello che il vocalist tenta di esprimere con la sua interpretazione.
Arriviamo alla nona traccia “Instrumad”. Si sprecano gli esercizi di stile, non senza piacevoli aperture sinfoniche. Talvolta lo stacco tra il tema portante e l’autocelebrazione conduce ad un viatico dagli intenti piuttosto dubbi. Siamo abituati a tracce lunghissime in ambito prog ma il modo in cui queste sono miscelate e si evolvono determina l’alchimia dell’intero. In questo caso vi potrà capitare di rimanere perplessi sulla personalità del disco, sicuramente poliedrica, ma anche poco marcata. La mia personale impressione è che, in questi ultimi 5 anni di lavorazione, il desiderio d’inserire quante più idee possibile abbia giocato a sfavore della concretezza sonora dell’album.

In conclusione un grande lavoro, suonato da gente capace e di duplice valore se si pensa al fatto che è stato realizzato a basso budget e tutt’ora privo di un’etichetta discografica. Sfortunatamente, l’album si perde nella miriade di ottimi dischi prog che la nostra nazione produce. Forse una maggiore attenzione su elementi catalizzanti ed una diversa scelta per il cantato avrebbe potuto permettere ai “Phaenomena” di dar luce a un capolavoro. Sarà per la prossima volta.

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