Recensione: The Primal Cause: Womanumental

Di Vittorio Sabelli - 24 Giugno 2014 - 15:04
The Primal Cause: Womanumental
Etichetta:
Genere: Death 
Anno: 2014
Nazione:
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78

A distanza di due anni dal loro debut-album “Enthrallment Traced” e a quasi dieci dalla loro formazione, la prima buona notizia è che i Grace Disgraced è riuscita a tenere insieme la sua line-up, dopo tanti cambi nel corso degli anni.

La seconda buona notizia è che la band esce di nuovo allo scoperto, ma con un concept-album che, come suggerisce il titolo, è incentrato sulla figura femminile. Non è un caso considerando che la vocalist Polina Berezko rappresenta senz’altro l’arma in più della band, che concede l’intero scenario alla leader, a partire dalla copertina, rappresentante un’eroina su un antico altare, tra le cui mani giace uno pterosauro morente. Il disegno è stato creato appositamente per il disco, ed è tratto da un quadro in olio su tela dell’artista neo-zelandese Nick Keller.

Tornando al contenuto di “The Primal Cause: Womanumental” le sette tracce trattano la figura femminile sotto i suoi diversi aspetti e ruoli, mostrando i suoi diversi lati caratteriali, da quella che è la guerriera raffigurata in copertina fino alla madre, dalla musa alla castigatrice, fino alla vittima. Insomma, Polina entra in un discorso molto intimo, filosofico e senz’altro privato.

Sarà lei l’eroina in questione?

Senz’altro la sua ugola non passa indifferente per chi si relaziona con la band moscovita, che continua a sfoderare un prog-death metal di ottima caratura, che non trova requie nei suoi sette brani. E completamente in accordo con i diversi ‘universi’ femminili le tracce scorrono via andando a sfiorare ambiti e territori inusuali, che si scostano ma allo stesso tempo proseguono il discorso musicale proposto dalla band. E mentre l’opener “Venustus Caedes” si cimenta tra death e thrash metal nella parte iniziale e in quella finale, al suo interno troviamo una ricca varietà di cambi di tempo, riff che si alternano ad arpeggi e obbligati metronomicamente impeccabili. Su questo marasma la voce di Polina si amalgama in maniera ottimale, cosa che sarà come da copione per l’intero disco.

“Secondary” spinge sull’acceleratore nella fase iniziale, lasciando spazio alle melodie dettate dalla chitarra di Klaptzov, che lanciano sezioni fulminanti, subito placate da tempi dispari e flanger che ricordano non poco il Chuck Shuldiner degli ultimi dischi… Ma è cosa risaputa che Polina (come del resto ogni deathster che si rispetti) abbia tra le sue figure preferite quella del padre e innovatore del genere.

I bongos che introducono “Initial” lasciano presto spazio a un medium-tempo che ruota intorno alle metriche di Ischenko. Dopo una lunga parte strumentale sempre Polina in versione Chuck sembra ancora ricordarci che il mito vivrà per sempre, ma non appena cerchiamo di metabolizzare questa verità, un ritmo tribale prende il campo ed è terreno fertile per un solo di chitarra melodico, prima di ripartire a tutta verso il finale, con innesti elettronici e industrial nella voce.

“She Smells Death” rallenta ulteriormente il tiro, per colpire improvvisamente con delle sfuriate mozzafiato, mentre nel finale Polina tocca corde ben note a colleghi di razza ‘orso marsicano’. “Panacea” è altresì intrisa di tempi dispari sui quali la voce continua a dare prova di ottima scansione ritmica, fino ad alternarsi con due soli di chitarra, che cambiano prospettiva e andamento.

L’intro concitata di “Dragons Of Emptiness” porta ancora a sortite thrasheggianti sulle quali la voce e la chitarra s’intersecano per condurci a una sezione fatta di break-down, preludio dell’ennesimo solo di chitarra melodico di Klaptzov. Da quì via dritti con scorribande in puro stile deatheggiante, che riportano in auge la voce industrial ascoltata sul finale di “Initial”, prima di un ennesimo calo metronomico, che conduce in maniera caotica verso la conclusiva “Humiliated And Insulted”, epilogo che vede ancora una volta l’ottima chitarra di Klaptzov dimenarsi e dettare l’andamento mai scontato della musica espressa dal quartetto, che sorprende per la naturalezza con la quale esplora i diversi terreni sui quali si alimenta e si cimenta. Il finale è una piccola chicca, melodica, dolce, che lascia più di una speranza per chi può dare vita umana…e morte!

Vittorio “versus” Sabelli

 

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