Recensione: The Reborn

Di Daniele D'Adamo - 23 Novembre 2007 - 0:00
The Reborn
Band: Risk
Etichetta:
Genere:
Anno: 1992
Nazione:
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83

Dopo due anni dall’uscita del loro terzo album, Dirty Surfaces (1990, Steamhammer/SPV), i Risk, formazione tedesca prolifica dalla breve ma intensa carriera artistica (1988 ÷ 1993, 5 full-length + 1 EP), nel 1992 esce sul mercato The Reborn, quarta e penultima fatica della band prima dello scioglimento successivo al quinto album, Turpitude, nel 1993. The Reborn viene inciso con la seguente formazione: Heinrich Mikus (Vocals/Guitars), Roman Keymer (Guitars, also Angel Dust, Crows, Centaur), Peter Dell (Bass, also Faithful Breath) e Jürgen Düsterloh (Drums, also Faithful Breath) e Christian Sumser (Guitars).

Bisogna subito evidenziare che i due anni di silenzio fra Dirty Surfaces e The Reborn hanno fatto bene alla band tedesca. Finalmente, dopo una certa incisione a livello stilistico, con The Reborn il songwriting appare maturo e ben definito. Lo stile mantiene il caratteristico groove dinamico e melodico che la band si porta dietro sin dagli esordi; tuttavia paiono più lontani i confini del Thrash, che avevano spesso lambito, in passato. Lo stile, cioè, si è assestato su di un Power di matrice neppure tanto velatamente Heavy. Con ciò, raggiungendo quindi uno stile compiuto, grazie al quale la band riesce finalmente a sfornare canzoni varie, eterogenee, in alcuni momenti con spunti di originalità, sempre però unite da un unico filo conduttore, che è lo stile della band stessa. Ultima ma non ultima, la produzione, finalmente all’altezza delle aspettative, che dona al disco un suono pieno e corposo.

Già con Arise, introduzione al platter, si può entrare nell’atmosfera che il gruppo intende dare all’album: metodicità, potenza e ricerca di originalità (in questo caso mediante l’utilizzo del sitar, strumento acustico della tradizione indiana). Subito dopo, il riff potente, melodico e continuo di Last Warning costruisce una canzone dal ritmo lento ma piacevole, sul quale, finalmente, Heinrich Mikus propone delle linee vocali armoniche e varie. Molto buono il refrain, riottoso e deciso. Complesso ed articolato il break centrale, nobilitato da assoli di chitarra a profusione, e dal tono tetro ed oscuro. Con Be No More, i Risk tirano fuori dal cilindro un mid-tempo “staccatesta”, dal riff incredibilmente cadenzato e ritmato in maniera perfetta, efficace nell’incedere poderoso e massiccio. Il refrain è nuovamente riottoso ed amelodico, cantato in maniera desueta in quanto con un tono assai basso come intensità. Molto melodico il break centrale, impreziosito dalle chitarre, che si rincorrono durante l’esecuzione degli orecchiabili assoli. Con Lullaby arriva inaspettatamente una canzone dai toni dolcissimi e languidi, quasi da fiaba. Dopo una lunga parte iniziale acustica, la canzone sale di intensità con l’introduzione degli strumenti elettrici, che altro non fanno che sottolineare il groove melodico e trasognante del brano. Awakening, introdotta da inquietanti ed oscuri suoni campionati, che rimandano ad una sensazione di fredda oscurità. Subito dopo, Turn Back To Ecstasy parte decisa con un riff di chitarra movimentato e dai rapidi cambi di tonalità, su una base ritmica dal tempo costante e di media velocità. Anche in questo caso, Heinrich Mikus riesce a sviluppare un’interpretazione varia e efficace delle linee vocali. Scandito e preciso il pre-chorus, anthemico il refrain, di facile ascolto e memorizzazione, riempito da cori che richiamano le parole del refrain stesso. Classico l’assolo di chitarra, su una base melodica e piacevole, diversa dal tono generale della canzone.
Dopo Eclipse, altro strumentale dal groove trasognante grazie alla sinergia fra chitarre e sitar, seguono una manciata di canzoni che ribadiscono l’avvenuto miglioramento della qualità e varietà del sogwriting della band teutonica. The Night Will Fall, e nuovamente viene messo in campo un riff potente, dinamico, veloce, da puro e semplice headbanging.  Aggressivo il cantato della strofa, anthemico e corale il refrain, potente e riottoso. Parte centrale dedicata alle evoluzione delle chitarre soliste, sempre a loro agio nella costruzione di assoli, chiari, puliti e dalla struttura specificamente Heavy. Con Phantasmagoria si inizia in maniera dimessa, per poi salire di tono con un incedere continuo e potente. Poi la strofa scende di intensità, per condurre al refrain, melodico nella sua semplicità e mancanza di inutili orpelli. Costante, comunque, il tono lento e rilassato. Con Armageddon il disco riprende potenza e vigore con un brano tipicamente Heavy, dal riff compresso e dinamico, assai dissonante il ritornello, che fa da contrappeso al groove sempre basato sulla melodia che il gruppo proporne come marchio di fabbrica. Stupendo il break centrale, per melodia, armonicità, potenza e ricercatezza di soluzioni originali ma sempre ancorate ad una solida base classica. A chiudere il disco, No One Will Remember, anch’essa dal ritmo lento e profondo, dalle linee di cantato ricercate, dagli intarsi arabescati delle chitarre soliste, dal ritornello dolce e melodico, seppure assai semplice e lineare.

In definitiva, a parere dello scrivente, la migliore produzione della band per quanto riguarda i primi quattro full-length. Sicuramente migliorata la produzione, sicuramente più lente le canzoni. Ma proprio per ciò – incastrate nella matrice del personale suono della band – più studiate e nobilitate da un songwrting che ha saputo dar luogo a brani perfettamente riconoscibili l’uno dall’altro, anche aiutato da una migliorata prestazione vocale di Heinrich Mikus.
 
Daniele D’Adamo

Tracklist:
1. Arise
2. Last Warning
3. Be No More
4. Lullaby
5. Awakening
6. Turn Back To Ecstasy
7. Eclipse
8. The Night Will Fall
9. Phantasmagoria
10. Armageddon
11. No One Will Remember

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