Recensione: The Second Coming

Di Francesco Prussi - 3 Aprile 2005 - 0:00
The Second Coming

Circa quattro anni fa, quando uscì il primo album dei The Sign mi colpì in maniera favorevole per via di canzoni vincenti, forti di un ottimo song-writing ed una notevole perizia tecnico-strumentale mettendo subito in chiaro le doti di questi stagionati musicisti. Non è da meno questo secondo full-lenght dal titolo The Second Coming, che supera notevolmente il suo predecessore, affinando quanto di buono i nostri fecero ai tempi del debutto. Il pregio maggiore di questo gruppo è la maestria con cui riescono ad attingere dalla lezione dei grandi del passato, amalgamando il tutto secondo il proprio gusto personale, senza scadere in una sterile e patetica rilettura di quanto sinora è già stato scritto. Proprio per questo motivo il disco suona fresco ed attuale, alla luce di brani vincenti concepiti per lasciare il segno in chi si pone all’ascolto del disco. Non per niente The Second Coming è un lavoro molto vario che spazia da atmosfere Yes-Kansas, sposate alla pomposità tipica di gruppi come gli Styx.

Splendide armonie vocali esaltano la breve e suggestiva intro strumentale Aryon Overture, ed in due minuti scarsi di durata funge da preludio alle reminiscenze Kansas-Styx della dura Stained (Gone). The Morning After (Time to Run) scorre su coordinate sonore vicine al melodic-rock, la seguente Motorcycle Messiah è sicuramente più sostenuta ed aggressiva, ricordandomi gli adorati House of Lords dei bei tempi che furono. Il blues fa capolino nella seguente Shine, con armonie vocali che riportano alla mente i grandissimi Yes. Mi cattura in modo particolare il breve interludio strumentale di Bliss, che ci porta all’affascinante If for One Moment, una semi-ballad particolarmente accattivante che raggiunge il suo apice nell’ispirato solo di chitarra. Vive di cambi di tempo assai repentini la dura Flame of the Oracle, invece la successiva The Ooeze è di breve durata e funge da intro per il delizioso strumentale Inner Child (Exorcise) dagli squisiti sapori prog, con il pianoforte di Mark Mangold in bell’evidenza. Con Black Mountain, i The Sign cambiano ancora registro evocando lo spettro del leggendario Dirigibile Inglese. E’ la volta della sognante e sdolcinata ballad Keep on Breathin’, seguita dalla versione più lunga e dilatata di Shine (Finale), con la citazione dell’iniziale Ayron Overture: sette minuti scarsi di pura magia hard-prog. Rapture (Ode to Ayon) è ancora un ispirato strumentale con melodie di chitarra molto accattivanti. Chiude il cd Maniac dalle sfumature sinfonico-pompose, sostenuta da un tappeto di chitarre hard-rock, per un finale d’insieme molto accattivante. Degna conclusione di un disco sicuramente riuscito, dove le poche note negative sono rappresentate dall’uso di una batteria elettronica e una produzione forse non particolarmente all’altezza di quanto proposto; ma che non intaccano minimamente la bellezza di questo piccolo gioiello sonoro.

Complimenti a Terry Brock, Mark Mangold e Randy Jackson, che hanno sfornato un lavoro molto vario e personale, alla luce di brani mai scontati o fini a se stessi, ma che accrescono l’interesse ogni volta che inseriamo il cd nel lettore.

Aryon Overture

Stained (Gone)

The Morning After (Time to Run)

Motorcycle Messiah

Shine

Bliss

If for One Moment

Flame of the Oracle

The Ooze

Inner Child (Exorcise)

Black Mountain

Keep on Breathin’

Shine (Finale)

Rapture (Ode to Aryon)

Maniac