Recensione: The Serpent & The Sphere

Di Tiziano Marasco - 19 Maggio 2014 - 8:34
The Serpent & The Sphere
Band: Agalloch
Etichetta:
Genere: Black 
Anno: 2014
Nazione:
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70

Da grandi dischi derivano grandi aspettative. Se poi i tuoi dischi, tutte le volte che ne pubblichi uno, a fine anno finiscono nella top 5 di moltissime riviste specializzate e non solo in quelle personali, allora ti trovi gli occhi del mondo puntati addosso appena accarezzi l’idea di entrare in studio e far qualcosa di nuovo.

Questa la situazione degli oregoniani Agalloch, band che ha saputo ridisegnare i confini del post metal con incisioni memorabili ed imprescindibili, coniugandolo via via a sonorità diverse nel corso del tempo e portandolo infine a livelli di furore impensabili per un genere ripetitivo, ipnotcco e malinconico. Una situazione cui i nostri sono abituati, ed alla quale hanno sempre saputo rispondere alla grande, seppure a fronte di lunghe attese. Quella per The Serpent & The Sphere, ad esempio, era durata quattro anni. Un singolo apripista piuttosto tradizionale. A fare da contraltare una copertina decisamente sobria e dal caldo tappeto rosso, che lasciava intuire un nuovo cambio. Un cambio che poteva essere confermato anche dalla lettura della tracklist dell’album che sembrava, come poi confermato in sede di intervista, dirottare i nostri su tematiche astrali, ma soprattutto filosofiche.

Un disco spaziale in vista? A dire il vero, no. E non v’è timore nel dirlo apertamente.

Sin dalla lunga estenuante opener Birth and Death of the Pillars of Creation, si nota come i nostri siano rimasti fedeli alle loro linee sonore guida. Si tratta di un brullo tappeto di chitarre acustiche, su cui la fa da padrone un riff trascinato alla sei corde. Qui poi fa il suo intervento la band con le chitarre granitiche e decadenti che l’hanno sempre contraddistinta. La traccia prosegue su questa falsa riga, coll’inevitabile intervento John Haughm al growl, tenuta in piedi dalle chitarre di Don Anderson, per oltre dieci minuti. Minuti che paiono durare come ore, tanto quello che sentiamo appare in tutta la sua sconcertante evidenza. Scontato! Birth and Death of the Pillars of Creation è infatti un pezzo incolore, manierato e trascinato all’inverosibile solo perché le opener degli Agalloch devono durare tanto. L’interludio Serpens Caput giunge come un’oasi nel deserto, ridesta l’attenzione dell’ascoltatore assonnato grazie a pochi, semplici arpeggi di chitarra di memoria quasi ulveriana. A tal punto viene da chiedersi cosa ci faccia la prima traccia all’interno del disco perché, al passar degli ascolti, tanto più si apprezza l’interludio, tanto meno ci si capacita del serpentone di riff plasticosi che lo precede. Le buone impressioni di Serpens caput vengono fortunatamente confermate dalla successiva Astral dialogue, pezzo duro del lotto, una song breve (5.11) e compatta guidata da riff lamellari, growl furibondo, con un piccolo rallentamento al centro. Un degno saggio dell’arte dei quattro, finalmente.

Meglio ancora va nella successiva, Dark matter Gods, otto minuti di riff passionali e trascinanti, alternati senza posa in un climax davvero grandioso e degno degli Agalloch. In conclusione, prima di arrivare al giro di chitarra che si rivelerà il miglior momento del disco, sentiamo un chorus in clean di sottofondo. Un elemento che induce sospetti (più che mai fondati) su come il gruppo di Portland abbia definitivamente e tristemente lasciato da parte le clean vocals. Al trascolorare della quinta traccia sorgono nuovamente istinti contrastanti. Celestial Effigy infatti, il singolo tradizionalista di cui in apertura, più lo si ascolta e più ci porta indietro a The Mantle. La riproposizione degli elementi cardine di quel disco è infatti davvero pedissequa e pur trattandosi di un brano di indubbia qualità, manca della verve di un tempo. Perché se da un lato Celestial Effigy è un ottimo pezzo, The Mantle è uno dei migliori dischi degli ultimi quindici anni. Veniamo al secondo interludio, nuovo pezzo acustico di grande atmosfera e di grande ispirazione al pari della seconda traccia, ennesima conferma che gli Agalloch sembrano dare il meglio quando ritrovano le radici folk.

A questo punto il fan boy che vi è salito sulla spalla a metà della prima traccia e che per buona metà del disco ha sacramentato come se non ci fosse un domani (a dispetto di una qualità di proposta comunque buona) se ne esce con la domanda: “Ma se gli vengono così bene le acustiche strumentali da tre minuti, perché non han fatto un disco come Kveldssanger?” Vi girate, lo guardate, non sapete che dirgli, perché non ha tutti i torti. Poi vi fanno notare che le composizioni acustiche non sono neppure loro, ma di Nathanael Larochette. Pazienza anche per questo.

Si viene ad ogni modo riportati alla realtà da Veils Beyond Dimension, altro tonfo vero e proprio, una sequenza di riff noiosi accostati senza una logica, prima che Plateau of the Ages, altro pezzo monumentale, conduca il disco alla fine con grazia e stile. A dispetto d’un inizio zoppicante infatti la canzone decolla splendida verso il quarto minuto, con riff nuovamente in grado di emozionare. La fine ancora una volta è lasciata ad uno zuccherino acustico che conferma quanto detto nel paragrafo precedente.

Da grandi dischi derivano grandi aspettative. È possibile che grandi aspettative amplifichino le delusioni riguardanti un disco, ed è possibile anche che questa recensione sia viziata da aspettative troppo grandi. Nella fattispecie il disco, pur essendo molto inferiore ai predecessori, pur essendo tenuto in piedi da un gran mestiere e da certo manierismo, si mantiene su standard comunque decenti. A mente fredda, offre due composizioni molto buone, degli interludi che sono riprova di come gli Agalloch, desiderandolo, sappiano ancora emozionare, un contorno godibile per quanto accademico ed infine solo due pezzi obbiettivamente insufficienti. Ricordando poi che, per dire un caso, i Queen hanno sfornato Hot Space nel 1980 e The Works l’anno successivo, possiamo dunque perdonare un mezzo passo falso a chiunque. Al di là di ciò, restiamo convinti che molta della delusione sia dovuta al fatto di trovarci innanzi ad una band sin qui infallibile. Speriamo vivamente pure di aver preso un abbaglio per una qualche ragione imperscrutabile. E nonostante tutto questo, siamo costretti a marcare The Serpent & The Sphere come uno dei flop di quest’anno.

Tiziano Vlkodlak Marasco

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