Recensione: The Violent Sleep Of Reason

Di Gianluca Fontanesi - 18 Ottobre 2016 - 0:01
The Violent Sleep Of Reason
Band: Meshuggah
Etichetta:
Genere: Djent 
Anno: 2016
Nazione:
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82

Ci sono molteplici definizioni di vuoto, dal sostantivo all’aggettivo fino ad arrivare alla locuzione; nel metal, o meglio, nella musica estrema, il vuoto ha un solo nome: Meshuggah. Svedesi, geniali, innovativi, una delle più grandi band in attività in senso assoluto e da annoverare tra quelle inarrivabili, sia per stile e tecnica che per la particolare attitudine. “The Violent Sleep Of Reason” taglia il traguardo dell’ottavo album sotto l’egida della Nuclear Blast, che accompagna la band dagli inizi di carriera e rafforza un sodalizio sempre più solido e duraturo. La prima importante novità da segnalare è un fattore che si rivelerà di fondamentale importanza per la fruizione dell’album: per la prima volta in più o meno 20 anni i nostri hanno registrato in presa diretta! Ciò, come vedremo, offrirà una prospettiva totalmente inedita e più “fresca” del sound dei Meshuggah che, sebbene non si sposti di una virgola rispetto ai precedenti album, ne fuoriesce comunque dotato di nuova e vibrante linfa vitale.

L’album parte subito in quinta con ‘Clockworks‘, uno dei pezzi più violenti e devastanti mai composti dal quintetto di Umeå: tutto giocata su un battere assassino e arcigno, che però viene alternato con parecchi momenti votati al groove e al più gratuito dei tritacarne. Gli elementi tipici ci sono ovviamente tutti: dalle chitarre a 8 corde agli assoli del buon Fredrik, dalle poliritmie fino ad arrivare alle linee vocali sempre più da cenetta romantica al lume di candela del signor Jens Kidman. La produzione è spettacolare e la resa degli strumenti ha un dinamismo che si rivela il vero e proprio valore aggiunto di The Violent Sleep Of Reason che, con la seguente ‘Born In Dissonance‘, continua a seminare macello fendente dopo fendente. Il primo singolo dell’album lo si conosceva già da tempo, ed è un brano abbastanza canonico ma dall’interessantissimo testo. Morte, distruzione, apocalisse; i Meshuggah ci conducono nell’abisso con quella che si rivelerà la più oscura, pessimista e cattiva tra le loro opere. ‘MonstroCity‘ ha un riff portante semplicemente devastante e tira fuori dal cilindro un universo distopico che di questi tempi è inflazionato come delle api in un favo. Molto interessante la parte centrale in cui vi è un piccolo sprazzo di melodia, cosa rara in casa Meshuggah ma apprezzabilissima. ‘By The Ton‘ fa le veci del lentaccio con un incipit straniante che ha l’effetto di uno sciame di insetti sulla testa del malcapitato ascoltatore. I riff delle otto corde si susseguono come lame; gli architetti del macello trafiggono l’archetipo del genere, lo modellano e lo riscrivono a piacimento come ordinati chirurghi. Non c’è respiro, non c’è aria, l’atmosfera è sempre più rarefatta e la morsa si stringe; non c’è scampo da The Violent Sleep Of Reason, la stessa titletrack lo conferma scagliandosi a spada tratta contro l’ignoranza e l’immoralità dell’uomo, artefice del suo stesso declino. Arriva il momento in cui Jens si cimenta in un riuscitissimo growl ed è il tripudio; vi è anche un inedito momento sussurrato e, quanto tutto sembra finito,  ‘Ivory Tower‘ subentra e devasta. Fantastico l’assolo di Fredrik, tra i migliori che abbia mai inciso, e lo stop and go seguente è da tramandare ai posteri.

Stifled‘, che ovviamente significa soffocato, aumenta il tiro e nei suoi oltre 6 minuti di durata strangola l’ascoltatore non facendogli capire più nulla. L’headbanging diventa quasi compulsivo, assuefatto, come se a suonare fosse il pifferaio di Hamelin con l’intento di rapirci e buttarci nel più nero dei baratri. Un sorprendente finale ambient ci traghetta verso la prossima avventura, ‘Nostrum‘, che è anche uno di brani migliori del lotto. Il riff portante di una sola nota è il lasciate ogni speranza voi che entrate che porta dritto all’inferno e alla micidiale apertura centrale. Quando i Meshuggah accelerano non ce n’è davvero per niente e nessuno, e ancora una volta lo dimostrano con la più terrificante delle scioltezze.

Ci avviciniamo al gran finale con la “semplice” ‘Our Rage Won’t Die‘, brano che si rivela più di respiro e meno stratificato rispetto al resto della tracklist, ma non per questo inferiore a livello qualitativo o da considerarsi un vero e proprio filler. Molto più interessante risulta la conclusiva ‘Into Decay‘ che, con un incedere quasi doom, finisce una volta per tutte l’ascoltatore lasciandolo totalmente interdetto e senza speranze.

Mai titolo fu più azzeccato per descrivere in poche parole la società odierna e contemporanea. Torpore, apatia, il violento sonno della ragione è una cosa che potrebbe fare incazzare qualsiasi persona sana di mente che ci si metta a rifletterci sopra; i Meshuggah l’hanno fatto e hanno messo le loro elucubrazioni in musica, col risultato di non lasciare respiro né scampo. La visione del mondo degli svedesi è cupa, nera, asettica come il veicolo con il quale la trasmettono, difficile, se non impossibile pensare ad un compromesso. The Violent Sleep Of Reason a un ascoltatore disattento potrebbe apparire poco fantasioso, tutto uguale; la differenza sta invece nelle sfumature e nei particolari che fuoriescono ascolto dopo ascolto. L’unico difetto imputabile è il non avere un’accelerazione o un pezzo trainante in grado di elevarsi a potenza rispetto al resto, difetto comunque di poco conto e facilmente bypassabile. Parliamo quindi di un’opera omogenea, di un mattone dalla digestione lenta e centellinata, che va per forza assaporato lentamente e senza fretta. Ci vuole pazienza per questo disco, è un’opera che svela il meglio di se sul lungo periodo e scoraggia praticamente subito ogni tipo di ascoltatore superficiale e disinteressato.

Mai piaciuti i Meshuggah? Di certo dopo aver ascoltato The Violent Sleep Of Reason vi piaceranno ancora meno, probabilmente li odierete anche. Per i fan l’acquisto è ovviamente obbligato, ma sempre col denominatore comune della pazienza. Se ne dicono di ogni sui ragazzi di Umeå: dalla voce monocorde (Chi ci mettiamo a cantare? James LaBrie??) fino alla critica ben più seria dell’essere sempre fermi lì. Tutto vero, ma le critiche si perdono, assieme anche alla paternità del nome “djent” che lasciamo ai vari bar sport metallici, sotterrate dall’ennesima prova di forza che ancora una volta lascia il mondo lì, fermo a guardare. I Meshuggah, anche in sede di valutazione, sono una delle pochissime band che vanno giudicate in base a loro stesse; quindi, meglio sicuramente di “Koloss” ma inferiore a capolavori come “Obzen” o “Chaosphere”, ci collochiamo comunque in fascia alta e di questi tempi è grasso che cola.

Questi sono di un altro pianeta, facciamocene una ragione, tutto il resto che ci prova è solo djent.

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