Recensione: The Wake Of Magellan

Di Mauro Gelsomini - 31 Dicembre 2002 - 0:00
The Wake Of Magellan
Band: Savatage
Etichetta:
Genere:
Anno: 1997
Nazione:
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94

In quindici anni di carriera i Savatage si sono sempre rifiutati di arenarsi, migliorandosi negli anni ’90, come prova il loro quattordicesimo album da studio, The Wake Of Magellan. Molto tempo fa la band iniziava fondendo l’heavy metal con il rock progressive, ma raramente riusciva a concepire un album così affascinante. Assumendo un personaggio inventato, Hector DelFuego Magellan, ipotetico discendente del famigerato esploratore Ferdinando, i Savatage raccontano due storie vere. La prima è quella della Maersk Dubai, una nave da trasporto di Taiwan il cui capitano, dopo aver scoperto tre clandestini a bordo, decise di buttarli in mare. La seconda è la storia della giornalista Veronica Guerin, che morì combattendo gli spacciatori di droga nel suo paese d’origine, l’Irlanda.
Magellan riferisce queste due storie nel corso dell’intero album, e la narrazione è abbellita da un poema epico sotto forma di diario di bordo, scritto, insieme alle liriche, dal produttore Paul O’Neill. E’ senza dubbio una fatica ambiziosa, ma l’aggraziata musica dei Savatage, che non solo si adatta alla storia, ma sfoggia anche delle melodie travolgenti, arrangiamenti intricati e soli sbalorditivi, la rende un viaggio davvero affascinante.

Il sipario si apre con “The Ocean”, verrebbe da dire, ma vorrei che questa locuzione non fosse scambiata per retorica: qui si tratta del vero “Hollywood Metal”, secondo cui tutto dev’essere lustro e spettacolare, a cominciare dall’intro, con il rumore delle onde del mare che si infrangono sulla tormentata linea di pianoforte. La progressione e’ fondamentale: ecco pronte le chitarre, il basso e la batteria che entrano maestose per la più istrionica delle presentazioni. Sono ancora stupito di quanto “Welcome” mi faccia ricordare il sound di “Bat Out Of Hell” di Meat Loaf; il piano di Jon Oliva, la voce di Zak Stevens e il poderoso coro sul coro…
“Turns To Me” è una potente song dalla doppia faccia: una acustica e melodica in apertura e sul ritornello, e una dark e più heavy, la cui contrapposizione è resa in maniera superlativa dalle chitarre di Chris Caffrey e Al Pitrelli. La definirei una ballad, non fosse altro per l’emozione che riesce ad infondere.
L’ottocentesca “Morning Sun” riecheggia quanto a sensazioni “Scarborough Fair” dei Queensryche, con la parte acustica molto bucolica e il ritornello potente, ma non troppo oscuro. Un’altra dimostrazione di progressione da brividi, grazie alla versatilità di Zak, alternante vocals melodiche e suadenti a quelle più violente e thrashy.
E’ ancora il thrash vecchia scuola a far da padrone in “Another Way”, cantata da Jon Oliva, e in grado da offrire un chorus catchy, spesso proposto in sede live in spettacolari medley.
L’intro oscura, ma pur sempre filmica (ormai è un marchio di fabbrica) di “Blackjack Guillotine” si innesta nelle strofe piuttosto pesanti, infantili se vogliamo, ma di buon effetto. Qui in definitiva il messaggio (la droga può ucciderti) è più potente della canzone.
E’ ancora Oliva che prende il microfono su “Paragons Of Innocence”, altra live-hit da medley, con il riffing portante così semplice e old-fashioned. Ancora una volta è la parte hollywoodiana del gruppo a venir fuori, e nell’improvviso cambio d’atmosfera Jon inizia quasi a “rappare”, cimentandosi di una lacerante performance che lascia senza fiato…
Probabilmente la song più heavy dell’intero disco è “Complaint In The System”. Zak narra rabbioso, mentre il guitar work potrebbe essere affiancato in qualche modo a quello degli Iced Earth: breve, veloce e strappato. Non mancano le sperimentazioni sonore, avendo il brano anche qualche reminiscenza industrial che comunque non pregiudica la riuscita globale.
“Underture” è una struggente strumentale di tre minuti che porta alla magniloquente title track. Si tratta di un’altra “The Ocean” che rivisita in breve tutte le soluzioni stilistiche e gli arrangiamenti fin qui esibiti, ed è ancora il “played on Broadway” a spiccare, spettacolare collage di passato e futuro, con un occhio di riguardo all’iniziale “Welcome” e la conclusiva “The Hourglass”.
La maestosa “The Wake Of Magellan” inizia dunque dopo quest’adrenalico medley, e lo fa in maniera molto semplice, con un opening bass-and-drum opening, aggiungendo con parsimonia tastiere e chitarre prima delle strofe e sfociando nel chorus epico e arioso. L’intera band si produce in una considerevole prova, e il contrappunto a sei voci sul finale è quanto di meglio io abbia sentito in un album progressive da lungo tempo a questa parte.
Da qui alla fine è un turbinio di emozioni senza pause. Tutto inizia con il grande lavoro di pianoforte di Jon che sostiene le vocals struggenti di Zak. E’ tutto perfetto, ma ciò che più illumina è la progressione naturalissima delle linee verso il chorus, il cui pathos è liberatorio di quanto era sopito, celato dalle strofe. Il brano cambia e si trasforma in “The Storm”, affresco di vita reale catturato dai Savatage e immortalato su nastro per sempre: sembra davvero di essere al centro di una tempesta, con tutti gli strumenti – voce compresa – a roteare insieme scontrandosi e riallontanandosi… Di grande effetto.
Il finale è affidato a “The Hourglass”, ultima e più lunga delle song di questo disco, che potrei definire come un climax di otto minuti, visto che si tratta di un’inarrestabile invasione di emozioni, in cui ancora l’immaginifico elementale trasporta l’ascoltatore, tra terra, acqua, aria e fuoco. Ancora una volta è il contrappunto a sei voci a chiudere alla grande, in maniera così teatrale: tutti i sei componenti della band danno il proprio apporto – così com’era stato per “Chance” su Handful Of Rain – perché tutti sono attori, tutti prendono parte alla straordinaria opera inscenata dai Savatage.

In definitiva credo che questo album debba essere annoverato tra i capolavori del progressive metal, senza che io mi debba produrre in una rassegna di ciò che sia prog. Semplicemente ritengo che esso passi con grande scioltezza dalle linee tutt’altro che melodiose e dalle ritmiche strappate di brani come “Paragons of Innocence,” alle soluzioni emozionanti e cantabili quali la title track e le seguenti song.
Tutti da osannare, dunque, a partire dai veri cantori della storia, Jon Oliva e Zak Stevens, i quali vestono letteralmente le loro voci e le colorano praticamente a piacimento: non c’è esitazione, non c’è un dubbio nell’interpretazione dei pezzi, tutto è perfetto; Al e Chris fanno un lavoro eccezionale, vagando dal soft all’heavy, da atmosfere cristalline e lustre a scenari più oscuri; da apprezzare il lavoro da certosino di Johnny Lee Middleton al basso, in grande spolvero su pezzi più tecnici e strutturati come “Complaint In The System”; Jeff Plate è sempre ordinato e curato nel suo drumming, mai – è vero – in grandissima evidenza, ma in grado di giostrare tra le opposte idee che sovvengono ai Nostri: il materiale introspettivo di “Turns To Me” deve tramutarsi in quello più sperimentale e quasi hardcore di “Paragons Of Innocence” o “Blackjack Guillotine”.
Lo stile dei Savatage, dunque, è cangiante ma sempre coerente con se stesso, risultando qui meno distruttivo del solito, ma paragonabile, quanto a songwriting, al leggendario “Streets”, entrando di diritto nell’olimpo dei migliori dieci concept album di sempre.

Tracklist:

   1.    The Ocean
   2.    Welcome
   3.    Turns to Me
   4.    Morning Sun
   5.    Another Way
   6.    Blackjack Guillotine
   7.    Paragons of Innocence 
   8.    Complaint in the System (Veronica Guerin)
   9.    Underture
  10.    The Wake of Magellan
  11.    Anymore
  12.    The Storm 
  13.    The Hourglass

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