Recensione: The White Death

Di Simone Volponi - 21 Gennaio 2018 - 17:50
The White Death
Band: Fleurety
Etichetta:
Genere: Avantgarde 
Anno: 2017
Nazione:
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70

I Fleurety erano e resteranno una band di culto all’interno della scena estrema sputata fuori dalla Norvegia anni ‘90. Lo erano ai tempi del debutto “Min Tid Skal Komme” e del successore “Department Of Apocalyptic Affairs”, lo sono ora che rispuntano dal silenzio diciassette anni dopo quest’ultimo, quando tutto per loro sembrava finito. Al di là infatti di una precedente raccolta di singoli, è con il nuovo “The White Death” che i Fleurety tornano a diffondersi come nebbia all’interno del cosiddetto avantgarde metal.
Al duo composto dal chitarrista Alexander Nordgaren e dal cantante-batterista Svein Egil “Zweizz” Hatlevik, si aggiungono diversi ospiti tra cui Czral-Michael Eide (Virus, Aura Noir), la cantante Linn Nystadnes (Deathcrush, Oilskin) e il flautista Krizla (Tusmørke, Alwanzatar) per un risultato finale difficile da gestire attraverso semplici etichette o ricerche di similitudini.

Già dalla lunga titletrack si ha la chiara sensazione di finire immersi in un calderone sonoro a se stante, basato su un riff e una batteria in modalità black metal, ma assolutamente dissonante e stratificato, con voci spettrali in sottofondo, inserti di flauto, il cantato declamatorio di Hatlevik, l’ingresso subito in primo piano dell’angelica Linn… una bizzarra e pazzoide discesa infernale che volontariamente non segue alcun schema.
In “The Ballad Of Corpernicus” il mood cambia repentino e sembra di ascoltare un trip funereo di Nick Cave. C’è un drogato senso drammatico, una lullaby stordita che culla e avvolge l’ascoltatore consegnandolo a uno stato di caldo deliquio. Il riff psicotico e in odor di stoner di “Lament Of The Optimist” rilancia un’andatura in apparenza scoordinata e dettata dalla follia, piena zeppa di elementi sfaccettati dalle interiora tribali e sciamaniche, mentre “Trauma” si concede un arpeggio lento e arcano per sfociare in un pezzo dal recitato psichedelico, condotto da Linn Nystadnes come fosse una Patti Smith oscura e in preghiera davanti alla propria tomba.
Resta impresa ardua introdurre e introdursi al mondo Fleurety se sono proprio loro i primi a costruire sostanze musicali indecifrabili come lo è “The Science Of Normality” che di normale non ha proprio niente. Eppure affascina e intrattiene proprio per la sua natura curiosa e instabile. Specie se seguita dalla lenta “Future Day”, a suo modo melodica e graziata da un bel flauto magico come protagonista.
Lo stesso flauto che poi deraglia nell’incanto dissonante di “Ambitions Of The Dead” condotta dalla voce delicata di Linn e dotata di un appeal psichedelico settantiano, quando i mantra indiani finivano nella miscela strumentali di quanti si abbandonavano nei meandri più fluorescenti gli acidi. “Ritual Of Light And Taxidermy” è il capitolo finale che non fa altro che ribadire la totale alienazione dei Fleurety a qualsivoglia schema, altri sette minuti di libertà artistica estrema, dove si gode dell’interpretazione enfatica e ipnotica di Hatlevik, ancora perso sulle tracce di Nick Cave o Lou Reed.

Dark and disturbing experimentalism” come la Peaceville stessa li definisce, riassume in parte quello che fanno i Fleurety, e “The White Death” non è certo un album per tutti, in quanto per apprezzarlo bisogna aver raccolto lungo la propria strada la varietà giusta di ascolti e di curiosità verso la materia rock. Con tali presupposti e il coraggio di guardare oltre, il ritorno di questi vecchi pionieri saprà regalare piacevoli sorprese.

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