Recensione: Theater of War

Di Andrea Bacigalupo - 30 Gennaio 2017 - 9:00
Theater of War
Etichetta:
Genere: Thrash 
Anno: 2016
Nazione:
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I greci Desert Near The End nacquero nel 2009 per volontà del bassista Akis Prasinikas e del vocalist Alexandros Papandreou, ai quali si unì, nel 2012, il chitarrista Thanos K.

Theater of War”, pubblicato dalla Label Total Metal Records nel 2016, è la loro ultima fatica, che segue “A Crimson Dawn” del 2011 e “Hunt for the Sun” del 2014,

I tre album raccontano la storia di un prescelto che tra gli assoluti, che schiavizzano le persone con la loro luce accecante, sceglie di essere un esempio usandola per fare loro da guida, diventando ispirazione per tutta l’umanità. “Theater of War”chiude la trilogia.

Per dar corpo al songwriting il trio si è maggiormente ispirato al Power Metal degli Iced Earth e dei Blind Guardian, unendolo al Thrash aggressivo di Kreator, Sodom e Destruction (citando alcuni tra i più illustri nomi di entrambe le fazioni) alternando ritmi estremi e martellanti, dove predominano rabbia e  cattiveria, ad altri sempre potenti, ma più epici e drammatici.

Le idee sono valide, il risultato è discreto ed il combo si è posto nella giusta direzione. Tuttavia per raggiungere l’obiettivo preposto, ossia mettere assieme due generi che tanti anni addietro si ramificarono dal ceppo dello Speed Metal, deve crescere ancora un pò.

In particolare le sezioni Thrash, quasi unicamente imperniate sulla velocità fotonica e su un’interpretazione molto radicale del termine “battere e percuotere”, vengono condotte sull’unico segmento della brutalità, tirando “dritto per dritto” quasi senza variazioni. Questo è evidente nella prima parte dell’album, composta dalle quattro tracce “Ashes Descent”, “Faces in the Dark”, “Point of  No Return” e “Under Blackened Skies”.

La seconda parte migliora sensibilmente: i Desert Near The End, non rinunciando ad un briciolo di potenza, danno più spazio agli arpeggi, alle aperture melodiche ed alle atmosfere evocative più tipiche del Power, introducendo trame oscure ed accantonando le parti brutali. In particolare pare che il vocalist sia più a suo agio con le linee vocali pulite, con le quali tesse la trama della storia, che non con quelle grezze che usa per trasmettere la rabbia. Su tali sentieri si muovono “A Martyr’s Birth”, “Season of the Sun” e “Theater of War”; è incisiva “At the Shores” che chiude l’album: con le sue parti acustiche e struggenti frammentate da sezioni potenti ed enfatiche è testimonianza della versatilità degli artisti; molto valido è l’assolo finale, che fa chiedere perché le doti espresse dal chitarrista in tale frangente non siano state più sfruttate nel corso dei pezzi precedenti.

Tirando le somme: anche se l’album non brilla per originalità, con troppi richiami alle grandi band che hanno ispirato il combo, le idee espresse sono senz’altro da premiare e la potenzialità di Papandreou e soci sono ben evidenti. Adatto per gli amanti di entrambi i generi, raggiunge la più ampia sufficienza.       

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