Recensione: This Island, Our funeral

Di Tiziano Marasco - 7 Ottobre 2014 - 0:00
This Island, Our funeral
Band: Falloch
Etichetta:
Genere: Doom 
Anno: 2014
Nazione:
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63

Proprio figa sta opener, aspetta che vado a vedere come si chiama… Come? È la seconda canzone? E la prima? Durava 10 minuti? Cosa stavo facendo? Non mi sono accorto di niente… Ah sì, se ci penso bene, ricordo qualche suono sconnesso ed insensato. Al secondo ascolto capirò di che si tratta.

Esistono vari tipi di approccio al disco di una band di cui si sa poco e nulla, quello del sottoscritto è un ascolto distratto, mentre fa qualcos’altro (cosa che al lavoro riesce piuttosto facile). Se il lavoro è molto buono, di solito la musica interrompe il flusso produttivo e cattura l’attenzione. Ma bisogna dire che un primo ascolto di questo tipo, queste sensazioni contrastanti causate dai Falloch ancora non erano state suscitate da alcuna altra band. Capolavoro o obbrobrio, arte o spazzatura? Domande che incuriosiscono e suggeriscono di procedere ad ascolti reiterati.

Ma chi sono questi Falloch? Una band scozzese, giunta al secondo disco, dedita ad una sorta di black doom atmosferico molto prossimo a certo post a cui non sono estranei diversi gruppi di questo ventunesimo secolo, con in testa i Cult of Luna degli esordi. La canzone figa di cui sopra ad ogni modo risponde al titolo di For Life, e ricorda molto da lontano i nostri Klimt 1918. O meglio, ricorda i Klimt in trip da valium e permeati da una depressione nebbiosa,universale, molto più profonda della decadente melancolia dei romani.

La opener invece si intitola Torradh e non son bastati gli ascolti ripetuti a cambiar l’idea di un pezzo senza capo ne coda. Una composizione che scivola da una distorsione all’altra, mettendo in luce tutta l’inadeguatezza di un growl amatoriale come quello di Tonny Dunn. Tonny Dun che pure è in possesso di un clean affascinante, profondamente debitore della tradizione rock britannica.

E così prosegue il disco, tra  buone prove ed incredibili scivoloni, fino a trovare la sintesi in Brahan. Vale a dire che questa composizione si dipana stancamente tra distorsioni indistricabili quali le nebbie delle Orcadi per poi dar vita, verso il quinto minuto, ad una canzone post rock con un gran bel ritornello. Discorso che vale anche per le due maratone conclusive, agli antipodi, con I shall build mountains che riesce a crear solo montagne, mentre Sanctuary sembra un’ isola su cui naufragare durante una tempesta oceanica in cerca di salvezza, ed apre spazi ampi e maestosi, alla faccia di quel tale che diceva “It’s shite being scottish!“.

Che dire dunque? I Falloch sembrano in possesso di ottime capacità, compositive ed espressive, dimostrano di saperci fare e di avere una personalità. Tuttavia è innegabile che i ragazzi abbian bisogno di schiarirsi le idee. O meglio, di dare un senso alle loro composizioni più acide e distorte, in modo da rendere affascinante un suono che alla luce dei fatti, non risulta molto più accattivante delle auto che parcheggiano in strada sotto casa o fuori dall’ufficio. Per ora li si promuove con fiducia, sperando che con il terzo disco possano trovar la loro via.

Tiziano ‘Vlkodlak’ Marasco

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