Recensione: Three of a Kind

Di Marcello Catozzi - 25 Novembre 2008 - 0:00
Three of a Kind
Band: Wine Spirit
Etichetta:
Genere:
Anno: 2008
Nazione:
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82

Il 25 ottobre 2008 è venuto alla luce il terzo prodotto discografico (se si esclude il “demo” del 1999) del combo lombardo, che torna alla ribalta più agguerrito che mai dopo i suoi lavori precedenti, ovvero “Bombs Away” (2001) e “Fire in the Hole” (2004).
La confezione, in cartone patinato pieghevole di colore marrone scuro, presenta sulla copertina un originale artwork recante 3 tavolette con altrettante impronte di animali e, all’interno, il libretto con le liriche e le foto della band.
La line-up, nell’arco di dodici anni di onorata carriera all’insegna del coraggio e della coerenza, si è mantenuta inalterata, così come la voglia di spaccare che anima questo inossidabile trio:
Si aprono le danze con LIKE A SINNER, che esordisce in modo sfavillante evidenziando, da subito, quelli che saranno i contenuti essenziali dell’album: potenza, agilità e ritmo, nel segno di un Hard & Heavy nudo e crudo, che in questo caso si presenta arricchito da uno stile collocabile a metà fra Iron Maiden e Van Halen. Su una robusta trama di riff incalzanti, in linea con la tradizione Metal, spicca il sorprendente botta e risposta di acuti vocali che concorre a imprimere il marchio “Wine Spirit” su questo esordio mozzafiato.
Il secondo brano è INK A DEAL, le cui liriche si pongono come un polemico riferimento ai contratti e alle promesse non mantenute: “Don’t esitate, sign your future…”.
Qualcuno potrà sicuramente riconoscersi in questa tematica… Volutamente rabbioso, il pezzo si regge su un cupo riff che ricorda lo stile di Zakk Wylde, ed esprime, nel suo complesso, una buona dose di grinta e sofferenza.
YOU’LL BE MINE si apre con un altro riffone di puro Metal seguito da un urlo strepitoso, per poi esplodere in una vera e propria cavalcata, densa di ritmo, con doppia cassa sparata a manetta in piena sintonia con le possenti note del basso. I tipici nitriti della chitarra recano il trademark del Conte, il quale si produce in un assolo che ricorda un pochino, nell’esecuzione, quello pirotecnico di Damned Clockstroke, mentre il Guapo si scatena nei suoi acuti.
THE UNDERACHIEVER, all’inizio, ha un tempo cadenzato, alla Black Label Society, quindi si giustifica l’apporto del timbro abrasivo di Corrado, sorretto da cori di accompagnamento più puliti. Successivamente il brano si rivela ben più vario e ricco di spunti interessanti, trasformandosi grazie a improvvisi cambi di ritmo, per poi tornare al motivo iniziale, fino al momento della chiusura, molto originale e suggestiva, con un vocalizzo che tiene la nota a lungo…
FIST IN THE DARKNESS esordisce con riff volutamente sporchi e graffianti, che introducono la melodia del ritornello, di presa assai immediata. Le parti vocali risultano equamente divise tra le ugole di Conte e Guapo, sostenute entrambe da chitarre sapientemente equilibrate, anch’esse di facile presa. La chiusura è brusca.
DIGITAL JAIL presenta una trama chitarristica tanto grintosa quanto orecchiabile, con urli spinti fino al limite, in un’atmosfera piuttosto cupa e rabbiosa; nella parte centrale, tuttavia, si può intravedere uno spiraglio di luce e di ottimismo, grazie a cori sublimi e ad arpeggi angelici. Ma è solo un momento: infatti, dopo questo time-out di illusoria beatitudine, si ritorna subito a galoppare sulle sonorità tipicamente W.S., fino alla fine della canzone, condita da vivaci e raffinate scale della sei corde.
Giunti alla traccia n. 7, si può tirare il fiato e godersi la splendida IT AIN’T EASY, autentica ballad di stampo Hard Rock, che si apre con un refrain orecchiabile e penetrante, di quelli che ti entrano subito nel cervello; il cantato, rispetto al resto dell’album, qui è morbido e suadente, persino nelle ottave più acute. La ballata è molto ben strutturata, con due assoli di chitarra (il primo acustico, il secondo elettrico) che si alternano nella parte centrale, e nel suo complesso tutto il brano risulta quanto mai gradevole ed equilibrato, grazie anche al discreto intervento del pianoforte di Nicolò Fragile (Gotthard) e, soprattutto, agli arrangiamenti di gran classe: non ho alcuna difficoltà ad affermare che, se ricorressero diverse e favorevoli circostanze “spazio-temporali”, questa canzone sarebbe un successo planetario.
Dopo questo mirabile abbandono alle melodie sognanti, il risveglio ci riporta alla dura realtà con BEHIND THE EIGHT BALL, che parte con un timing molto tirato impresso da basso e batteria, sul quale si lanciano con grande agilità le note di chitarra. L’assolo della parte centrale è molto vivace, con picchi acuti, mentre il motore ritmico si produce in continui stacchi in controtempo che conferiscono peculiarità all’episodio.
Si continua con HANKY PANKY, ripescata – per così dire – dal “demo” datato 1996: un’esplosione di puro Rock and Roll senza fronzoli, scanzonato e aggressivo al punto giusto: una canzone da “street band” insomma, destinata per tale motivo a dare tanta soddisfazione in ambito live.
RIDING HIGH incomincia con un basso alquanto virtuoso, direi quasi alla Marcel Jacob, accompagnato da una chitarra un po’ aspra e da un cantato che ricorda lo stile dei Van Halen dell’era Sammy Hagar (soprattutto per la timbrica ruvida del Guapo); l’assolo spicca per la tipica personalizzazione (alla Conte, per intenderci), di grande tecnica e raffinatezza, con lo spessore di suono e le caratteristiche digressioni “equine” che da sempre ne contraddistinguono lo stile.
Arriviamo all’ultimo capitolo: THE GREEDY KING è un mid-tempo di reminescenza epica, un po’ sabbathiano per il suo sound, crepuscolare e pomposo; il testo è denso di storia e parla della triste fine dell’Ordine dei Templari, avvenuta per mano di Filippo IV di Francia con l’appoggio del Papato. Anche l’aspro vocione di Corrado qui ha modo di farsi sentire nei cori. Per la costruzione, per l’incisività del ritornello e per la solennità dei suoni, avuti presenti i gusti di chi scrive, si tratta del momento migliore del disco (a parte il discorso riguardante la ballad, che esula però dal contesto generale, più prettamente “Heavy oriented”).
Dopo l’ascolto del CD si può tranquillamente affermare che i Wine Spirit sono tornati, trascorsi quattro anni di silenzio… solo discografico, per fortuna, giacché i nostri eroi, in questo lasso di tempo, hanno continuato a far tremare le assi dei palchi per la gioia degli appassionati di questo genere. Sono tornati presentando un prodotto coerente con il loro stile, quantomai fedele alla loro tradizione e frutto delle loro radici, della loro cultura, del loro Credo, ribadendo – se mai ce ne fosse bisogno, per chi li conosce – la loro incrollabile affezione a un genere che, forse, non sta attraversando il miglior periodo della sua storia.
Volendo trovare uno slogan a questo album, mi verrebbe da pensare a “La rabbia e l’orgoglio”, prendendo in prestito il titolo di un famoso best seller. La rabbia traspare da ogni nota, dal ritmo serrato dei brani, ma soprattutto dalle tonalità delle parti vocali, sempre tirate a manetta. L’orgoglio si avverte dall’intensità di ogni traccia, soprattutto dalla profondità delle liriche, come se i musicisti volessero dirci: “Hey ragazzi, il mondo sta cambiando (in peggio?), ma noi siamo ancora qui, con la stessa voglia di sempre!”.
Un solo ascolto non è, comunque, a mio avviso sufficiente per cogliere appieno tutte le sfumature e i dettagli che si celano fra le righe del pentagramma: infatti la prima volta si potrebbe avvertire la sensazione di essere di fronte a un disco piuttosto omogeneo, per quelle voci un po’ troppo “urlate”, per quel tiro costantemente veloce e grintoso, per quegli assoli così sparati e graffianti… Tuttavia, man mano che la musica si fa strada attraverso le trombe di Eustachio, raggiungendo le zone più profonde della nostra sensibilità, scopriamo che c’è dell’altro, e riusciamo ad apprezzare tutta quella versatilità che sfugge al primo ascolto: il raggio della nostra visuale si apre e, a quel punto, ogni canzone rivela una maggiore varietà di contenuti e di temi. Pur nell’omogeneità dello stile (Proud to be loud, tanto per essere chiari), in ogni brano emergono molteplici sfaccettature che impreziosiscono il prodotto nel suo complesso, rendendolo più ricco ed eterogeneo, e il giudizio finale, pertanto, non può che essere positivo.
In definitiva si può affermare che i Wine Spirit si confermano una significativa realtà nel panorama musicale italiano, confezionando un bel disco di grande spessore, che – rispetto ai precedenti album – finalmente può vantare, oltre alla indiscutibile qualità del contenuto musicale in sé, anche una produzione di ottimo livello.

Marcello Catozzi

Tracklist:

01. Like a sinner
02. Ink a deal
03. You’ll be mine
04. The underachiever
05. Fist in the darkness
06. Digital jail
07. It ain’t easy
08. Behind the eight ball
09. Hanky panky
10. Riding high
11. The greedy King

Line up:

– Graziano Demurtas “il Conte” guitars – lead vocals
– Alberto Bollati “el Guapo” bass – lead vocals
– Corrado Ciceri “CC Nail” drums – vocals

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