Recensione: Time For Revolution

Di Ottaviano Moraca - 6 Maggio 2016 - 10:01
Time For Revolution
Etichetta:
Genere: Heavy 
Anno: 2015
Nazione:
Scopri tutti i dettagli dell'album
69

Un tuffo nel passato… O forse no! Appena iniziato l’ascolto di questo disco ho pensato provenisse direttamente dalla gloriosa età dell’oro dell’heavy metal, quegli anni Ottanta che non si possono dimenticare o, per chi non c’era, ignorare. Evidentemente non ci riescono nemmeno gli Headless Crown che, infatti, nella loro biografia (la trovate in due lingue su http://www.headlesscrown.com/) citano tra le influenze Accept, Saxon, Iron Maiden e Judas Priest. Non che ci fosse bisogno di scriverlo. Bastano i primi quindici secondi di questo disco per capire quello che ascolteremo nelle successive undici tracce: NWOBHM, tutto maiuscolo, anche perché in effetti la proposta di questa band merita di essere presa in serissima considerazione. Soprattutto se siete dei nostalgici, degli inguaribili romantici o se semplicemente avete una predilezione per il genere ma, conoscendo già a memoria tutti i classici, siete alla ricerca di qualcosa di nuovo… ma non troppo. Dai nomi dei componenti non si potrebbe mai indovinare la provenienza di questo nuovo combo svizzero formato comunque da musicisti di lunga data e con già una certa esperienza alle spalle: troviamo Steff Perrone al microfono, Carlos Bensabat dietro le pelli, Mack Machet a completare la sezione ritmica, Ced Legger ad occuparsi degli assoli mentre è Manu Froelicher ad imbracciare l’altra chitarra.

Il loro debutto discografico si intitola “Time for Revolution” e si apre con “The World Scream”, un buon pezzo di solido metallo rovente, articolato e trascinante. Solo alcune scelte di Perrone non convincono del tutto, almeno fino al ritornello che invece è sapientemente orecchiabile e coinvolgente. Identico discorso vale per  “Here Comes The Night” caratterizzata dal bel solo e dal riffing tagliente. Perrone si riscatta trovando (e mantenendo da qui in poi) la propria identità nella successiva “Edge Of Sanity”. Qui i Judas Priest di “Painkiller” rivivono in un brano davvero convincente, tra atmosfere cangianti e repentini cambi di ritmo. Discreto anche il video ufficiale, che non brilla per originalità, ma perlomeno è ben realizzato. Gli altri video pubblicati dalla band sono ripresi dal vivo in maniera approssimativa e non convincono più di tanto. Per sapere come se la cavano sul palco bisognerà vederli durante il prossimo tour o aspettare un video (con audio) di qualità professionale. Proseguendo l’ascolto troviamo “Stranded”, con il suo crescendo insolitamente lento che comunque ci regala pregevoli melodie intrecciate in una struttura alquanto complessa. Insomma davvero un buon brano che ci porta all’altrettanto valida “Reach Out (for The Light)”. Da segnalare la doppia intro, il chorus quasi “epic” e il lavoro delle chitarre, che decisamente danno al brano una marcia in più. Sezione Axe-men in grande evidenza anche in “Hellhounds”, potente e aggressiva, viene caratterizza dalla voce graffiante e dal riffing davvero intenso. Ma è con la succesiva “Searching For My Soul” che i Nostri ci mostrano dove possono arrivare e per farlo scelgono di alternare momenti mid-tempo con parti tirate, fondendo il tutto in una struttura molto interessante. Maiuscole le chitarre, soprattutto la solista, e in generale pregevole la resa dei suoni.

Una leggera flessione nell’incisività di questo debut album, obbiettivamente difficile da mantenere sui livelli appena raggiunti, la troviamo in “Lonely Eagle” che, senza essere affatto male (anzi) soprattutto per le linee di chitarra, non aggiunge né toglie nulla a quanto ascoltato finora. La scintilla si riaccende con “Be Seeing You” che, pur non riportandoci alle vette che gli elvetici hanno dimostrato di saper raggiungere, ci restituisce buone sensazioni soprattutto grazie al songwriting originale e al sound, che paga però un pesante tributo ai Maiden di metà carriera. La prova della traccia più lunga del disco è comunque ottimamente superata. Segue “Evil Rising” che punta tutto sull’atmosfera malvagia già presagita dal titolo. L’obbiettivo è centrato, pur senza far gridare al miracolo, soprattutto grazie al chorus e al lavoro della chitarra solista in perenne stato di grazia sia compositiva che esecutiva. La consacrazione definitiva di questo buon debut la otteniamo con “Men Or Machines” che, come si evince dal coro nel bridge centrale, idealmente è la title track dell’album e si presenta come un pezzo più lento, più lungo e più cadenzato dei precedenti, ma non per questo meno incisivo. Al contrario il gran finale offre ai nostri l’occasione di mostrare il loro talento nel saper tenere l’attenzione dell’ascoltatore sorprendendolo anche con soluzioni melodiche e compositive inaspettate. Ottimo lavoro!

In definitiva questi Headless Crown convincono, anche se non avrebbe guastato un po’ più di coraggio nello sperimentare soluzioni maggiormente personali. Ed è un peccato perchè evidentemente le carte giuste ci sono… eccome. Unica pecca in fase di mixaggio per la voce che a volte risulta troppo “davanti”. Detto questo “Time for Revolution” è un debut album già molto maturo, soprattutto per quel che concerne la composizione, quindi i Nostri si possono permettere di prendersi del tempo per rielaborare la loro proposta amalgamandola con un po’ di originalità… e noi faremo meglio a non farci cogliere impreparati perché perdere il secondo lavoro in studio di questa band rischia di essere davvero un grosso errore: forse di “rivoluzione” non si può ancora parlare ma se queste sono le premesse quel tempo potrebbe arrivare presto!
 

 

Ultimi album di Headless Crown