Recensione: Time To Take A Stand

Di Fabio Vellata - 23 Luglio 2006 - 0:00
Time To Take A Stand
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Genere:
Anno: 2006
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86

Davvero di ottimo spessore e grande interesse questa nuova creatura del bravo Matt Filippini, eccellente chitarrista dotato di classe, intuizioni e capacità a livello di songwriting del tutto ragguardevoli.

Il progetto si presenta come la più classica delle all-star band a cui siamo stati abituati in questi ultimi tempi, dove, attorno ad un personaggio “cardine” a cui tutto fa riferimento (Filippini per l’appunto), ruotano una serie di artisti di elevata notorietà e background, in grado di nobilitare il platter quali eccellenti interpreti e, contemporaneamente, fornire anche il giusto traino in sede di richiamo promozionale.
La lista dei convocati è di quelle da capogiro: Glenn Hughes, Ian Paice (presenti su di un unico disco come non succedeva dal 1975!), Paul Shortino (Rough Cutt), Steve Walsh (Kansas), Graham Bonett (Rainbow), Carmine Appice (Vanilla Fudge), James Christian (House of Lords), Tony Franklin (Whitesnake), Kelly Keeling (Michael Schenker), Eric Bloom (Blue Oyster Cult) e Howie Simon (Talisman), vanno a costituire una sorta di dream team dell’hard rock / blues, che risulterà particolarmente gradito a tutti gli amanti delle sonorità settantiane, che hanno in Deep Purple, Rainbow e Led Zeppelin i principali numi ispiratori.

Facilmente paragonabile, per qualità e schieramento di forze, al simile project di Stuart Smith intitolato Heaven And Earth, questo “Time To Take A Stand” è effettivamente uno di qui prodotti destinati a divenire una sorta di piccolo classico non appena entrato in contatto con la lente ottica del lettore; il flavour sprigionato, fatto di note calde e ricche di feeling, la carica blueseggiante che permea ogni episodio, la bontà dei pezzi, godibili e di grande resa e, non da ultimo, le eccellenti prestazioni dei vari ospiti, contribuiscono in modo fattivo alla piena (pienissima) riuscita di un cd brillante e davvero soddisfacente sotto ogni punto di vista.
L’omogeneità delle composizioni fa si che il dischetto scorra in tutta la propria durata senza intoppi o cadute di tono: un fiume di note roventi a costruire una serie di brani perfetti per il genere e da manuale del rock duro.
Eccellenti episodi come “Not Dead Yet” con Graham Bonett quale magistrale prim’attore, la sincopata e funkeggiante “Rose In Hell” ed il passionale blues “Where Do You Hide The Blues You’ve Got”, che si fregiano della presenza del mito assoluto Glenn Hughes (irraggiungibile come sempre!) e la potente e grintosa “City Of Lites”, che si avvale della prestazione di Steve Walsh, oltre ad essere caratterizzata da un riffing assassino e molto incisivo (ad opera del bravissimo Filippini, che si dimostra in tutto il dischetto un vero “mostro” di tecnica al servizio delle emozioni), sono alcuni titoli rappresentativi della grandezza di questo album, che non richiede particolari lungaggini in sede di commento, ne eccessive dissertazioni in merito alla propria validità, trattandosi di un prodotto che ogni amante del vero hard rock di matrice seventies non può davvero esimersi dal possedere.

Ottime canzoni, ottimi suoni, grande feeling, grandi interpreti e pure una bella copertina.
Può bastare?

Tracklist:

01. Slave Of Time
02. Not Dead Yet
03. Fire & Water (Cover dei Free)
04. Rose In Hell
05. Beggar Of Love
06. Where Do You Hide The Blues You’ve Got
07. City Of Lites
08. Pictures Of My Lonely Days
09. On The Way To Moonstone

Line Up:

Matt Filippini – Chitarre
Glenn Hughes – Voce
Graham Bonett – Voce
Steve Walsh – Voce
Paul Shortino – Voce
Kelly Keeling – Voce
Eric Bloom – Voce
James Christian – Voce
Carmine Appice – Batteria
Ian Paice – Batteria
Tony Franklin – Basso
Howie Simon – Chitarra

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