Recensione: Tomcattin’ (Reissue)

Di Eric Nicodemo - 16 Febbraio 2014 - 13:35
Tomcattin’ (Reissue)
Band: Blackfoot
Etichetta:
Genere: Hard Rock 
Anno: 2013
Nazione:
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87

Per comprendere al meglio la nascita di un genere musicale è necessario collocarlo in un contesto temporale e sociale definito, chiavi di lettura indispensabili nella genesi di un movimento.

Questo è il caso del Southern rock, una corrente che ha origine, come ben sappiamo, in quella che fu la confederazione degli Stati Uniti del Sud, e divenne celebre grazie ai precursori indiscussi del genere, i Lynyrd Skynyrd.
A partire dagli Skynyrd, nel corso degli anni ’70, hanno avuto origine tutta una serie di eredi che, appresa la lezione dei padri, proposero una miscela di country irrobustita con un’iniezione di duro, selvaggio hard rock.

I Blackfoot, assieme a Molly Hatchet e The Outlaws, rappresentano i portabandiera di questo movimento, che ebbe il merito di ingraziarsi anche i fan dell’hard’n’roll più intransigenti.
Il nome Blackfoot deriva da una famosa tribù di pellirossa stanziati nel Montana, un tributo esplicito alle origini dei fondatori del complesso, alias l’emblematico trio Rickey “Rattlesnake” Medlocke, Jakson Spires e Greg T. Walker.
“Tomcattin'” (1980), prodotto da Henry-H-Bomb Weck, può essere considerato l’anello di congiunzione tra il rock sudista, la tradizione hard settantiana e una finestra sull’heavy rock che spopolerà negli Eighties.

Se avete dei dubbi basterà la fucilata di “Warped” a spazzare ogni indugio, grazie alla carica massiccia delle tre asce, capace di scrollare l’ascoltatore più pigro e sedentario. D’altronde la deragliante  sessione strumentale è il marchio inequivocabile dei Nostri che proclamano il loro credo a squarciagola: “… Now I’m out on my own and nobody speak for me And I don’t want much but to keep on riding free…”!  
Le successive “On The Run” e “Gimme, Gimme, Gimme” non fanno altro che esaltare l’impeto imbizzarrito del combo: i tamburi di guerra di “On The Run” aprono le ostilità mentre il riffarema del basso ha un groove sporco e polveroso, in perfetta simbiosi con la voce roca e virile.      
In “Gimme, Gimme, Gimme”, l’indiavolato boogie woogie è un rodeo dove la sei corde impazza, complice uno spericolato Medlocke, che travolge l’audiance grazie al chorus dall’alto tasso melodico.       

I Blackfoot non allentano la presa e “Dream On” diviene il palco ideale per far esplodere la potenza sguaiata del vocalist, creando una spirale di hard blues imbevuto di provocante, alcolico Southern; i Nostri non sono, tuttavia, bruti senza cervello e ampliano la proposta con una divagazione suggestiva della sei corde, intriso di rocambolesco guitar play.  
L’energia di “Tomcattin'” non si esaurisce mai, neppure nei momenti più “meditati” della passionale “Every Man Should Know (Queenie)” e del country blues “Spendin’ Gabbage”, un intreccio nostalgico che richiama i giorni trascorsi viaggiando sulla “Highway 95”, la vecchia autostrada che attraversa Jacksonville (terra natia di Medlocke).  
Con il procedere dell’ascolto, l’appesantimento del suono emerge sempre più evidente: la manna sacra per l’adoratore di hard rock si intitola “Street Fighter”, il cui coro assume connotazioni quasi epiche, degne della vecchia scuola heavy, mentre il pattern centrale è ruvido e possente come un macigno.

Doppia anima anche per l’up tempo “In The Night” e “Reckless Abandoner”: nella prima, l’armonica rispolvera atmosfere torride mentre il coro preferisce elevarsi in un canto appassionato che narra di amori clandestini (!); nella seconda, la chitarra è capace di cambiare pelle passando da inserti rocciosi e andanti, a midtempos venati da malinconia. La varietà del registro musicale (tempi e suoni più o meno intensi) e la duttilità del frontman, distinguono “Reckless Abandoner” dal resto del platter, infondendogli un retrogusto, definito dallo stesso Rickey, a tratti “… Free-like…”.              
Prima di lasciare la Georgia, “Fox Chase” rievoca le battute di caccia vissute dal nonno di Medlocke, Shorty: dopo un breve intro, giocato sull’armonica, l’inseguimento si apre sguinzagliando una sessione ritmica spigolosa, percorsa dal guitar work nervoso, protratto nei vibrati acuti e sferzante nelle veloci incursioni soliste. Il quadro sonoro contribuisce efficacemente a riprodurre un ambiente aspro ma ricco di vita, in cui rivivono i racconti di un lontano passato.    

La grintosa eredità di “Tomcattin'” verrà trasmessa a “Marauder” (1981) ma il periodo aureo dei Blackfoot avrà termine subito dopo con “Highway Song Live”, che costituisce la consacrazione di una ascesa breve ma intensa, prima del cambio di rotta avvenuto con “Siogo” (1983).

“Vertical Smiles” (1984) farà il resto, dando il colpo di grazia alla grande avventura dei Nostri, complice l’uso delle tastiere che mal si adattava allo stile della band (non a caso il giornalista Xavier Russel ribattezzerà l’album “Vertical Yawns”).

Ma, alla fine, qual è il significato dell’idioma “Tomcattin'”?
Se pensate a qualcosa di astruso, siete fuori strada: nient’altro che passionale divertimento nel buio della notte perché “… I love my nightlife, yes, just me and my friends…”.

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