Recensione: Towers of Grandiosity

Di Daniele D'Adamo - 2 Settembre 2018 - 0:19
Towers of Grandiosity
Band: Descent
Etichetta:
Genere: Death 
Anno: 2018
Nazione:
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55

Sembra incredibile ma nell’ambito death 2018 esistono band che, come disco d’esordio, sfornano qualcosa di rimandabile con facilità agli albori – fine anni ottanta / inizio anni novanta del genere di cui trattasi.

Per esempio gli australiani Descent, con il loro debut-abum “Towers of Grandiosity”, che segue soltanto un demo, uscito nel 2015.

Non si tratta di old school quanto, bensì, di death metal puro e semplice tuttavia ricco di profumi d’annata che lo collocano, per certi versi, in parte, nel periodo temporale suddetto. In parte poiché i Nostri mulinano i propri strumenti con una furia devastatrice ancora ignota ai deathster primigeni, quindi più rispondenti ai dettami attuali in materia di metallo della morte.

L’ugola di Anthony Oliver è sì stentorea e votata al ringhio ma non si addentra più di tanto nel growling, risultando peraltro abbastanza discernibile dal muro di suono eretto dai suoi compagni di avventura. I quali, per inciso, non si fanno certo da parte nel creare un sound a tratti scarificatore, trascinato nell’opera di spellatura dalle ondate di blast-beast generate dal drumming un po’ rozzo e involuto di Kinglsey Sugden (‘Hindsight’). Che, in ogni caso, non sfigura, come tipologia musicale, nell’economia generale del combo di Brisbane. Le due chitarre svolgono bene il compito loro assegnato, pur senza tirare fuori dal cilindro riff particolarmente accattivanti, ovviamente osservati con occhi da metal estremo. Il basso, come spesso accade in questi casi, si limita a un’azione di riempimento, aiutando in ogni caso a innalzare l’asticella dell’energia espulsa dalla macchina-Descent.

Uno stile, definito e delineato nei contorni, questo sì, ma che non brilla assolutamente per originalità, andando quindi a far massa con le migliaia di formazioni che bazzicano la medesimo foggia artistica, underground e non. Trito e ritrito, per sintetizzare.

Oltre a questo, è evidente che sia ancora da definirsi compiutamente la capacità di scrittura dei brani. Non male in sé e per sé focalizzando l’attenzione su ogni singola traccia ma che, se prese insieme, divengono alquanto simili le une alle altre.

Insomma, non è il solo ritmo a determinare la bontà di un full-length. Ci deve essere altro come un certo talento compositivo, in grado di attirare l’attenzione per via di qualche particolare innovativo oppure quando costruito in maniera appropriata per dare memoria di sé.

In ultimo, “Towers of Grandiosity” dura solo ventiquattro minuti, con che si fa presto a consumarlo e gettarlo via, nel dimenticatoio.

Semplicemente insufficiente.

Daniele “dani66” D’Adamo

 

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