Recensione: Tribe

Di Mauro Gelsomini - 24 Luglio 2003 - 0:00
Tribe
Band: Queensrÿche
Etichetta:
Genere:
Anno: 2003
Nazione:
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50

So che starete già rimuginando e discutendo tra voi del voto, che avrete avidamente letto per primo. E allora rompo gli indugi dicendovi subito che il nuovo Ryche non mi è piaciuto. Per una lunga serie di motivi, riconducibili tutti al passato della band che – a questo punto il dubbio è lecito – mi aveva illuso con un capolavoro come “Operation: Mindcrime”, mai bissato, e neanche lontanamente avvicinato, almeno per chi scrive.
Le caratteristiche del nuovo album sintetizzano in pratica ciò che i suoi creatori intendono per musica originale – da sempre il punto di forza della band americana – e risultano ammirevoli almeno in fatto di “coraggio”. Sì perché di coraggio si tratta, quando un intero album è attraversato da scelte sonore martellanti, nel senso più ampio del termine, ovvero da idee che tentano di inculcarsi per non far dimenticare “come suona” il disco: parlo di un’atmosfera oppressiva, ottenuta nei modi più disparati, atta a sottolineare quella ripetitività che vuole forse apparire un tormentone, ma che diventa spesso poco più che una nenia.
E’ il caso delle strofe di “Open”, dal riffing lento, insistito e cadenzato di Wilton, dal cantato quasi orientaleggiante di Tate; si passa per un curioso bridge pop e un ritornello che sembra uscito direttamente dagli scarti delle sessioni compositive di Operation, per avere subito il quadro che farà da fondo ai successivi ascolti.
Il titolo dell’album ritorna spesso nelle ritmiche tribali di cui è infarcito (es. “Losing Myself”), e in particolare costituiscono quel rapporto di amore/odio con i synth che sono l’altro grande neo di questo disco: la sua evidente vena elettronica, insieme ai succitati tribali, il riffing ossessivo e mai aggressivo, il cantato ripetitivo di Geoff e il drumming sottotono di Rockenfield rendono i pezzi fastidiosi e danno loro quel senso di ninna-nanna che non vorrei mai avvertire quando ascolto musica.
“Desert Dance”, già ascoltata in fase di promozione è la summa di quanto detto, aggiungendo al discorso elementi di saturazione sonora quasi nu-metal, quali filtri sulle chitarre e – udite udite – dei controcori simil hip-hop.
Sembrerebbe rassicurare il cantato classic-oriented di “Falling Behind”, sulla scia compositiva dei lavori solisti di Michael Kiske (maggiormente verso “Supared” o “Readubess To Sacrifice” piuttosto che “Instant Clarity”), ma le linee melodiche sono difficilmente seguibili, eccetto il solito “effetto carillon” del refrain. E’ a questo proposito che sottolineerei l’apporto al songwriting di Geoff Tate… Si nota la mancanza di uno che il metal lo sente. Parlo naturalmente di DeGarmo, che gran parte aveva avuto nella stesura di brani come – e qui arriviamo al nocciolo della questione – “Operation: Mindcrime”, “Suite Sister Mary”, “Breaking The Silence”, “I Don’t Believe In Love” o “Eyes Of A Stranger”. Soluzioni melodico/ritmiche mai più battute dai ‘Ryche, i quali continuano a sfornare dischi che, fatti salvi rari episodi in “Empire” – guarda caso sempre firmati DeGarmo -, risultano troppo estranei dai canoni del metal e (ma qui lungi da me polemizzare) sono diventati quasi un vanto per i denigratori del genere siffatto.
La mancanza di accelerazioni si fa sentire già alla quinta traccia, “The Great Divide”, una riproposizione di quanto già affermato, senza spunti brillanti e anzi, con l’accentuazione di quel senso antimelodico che si realizza col passare dei minuti. Direi che ad illudere ci pensa “Rythm Of Hope”, ballad orecchiabile, ma mai espressamente coinvolgente, mentre si torna a sonorità stranianti, basate sul contrasto tra ritmi, suoni e melodie, con la titletrack, una sorta di riassunto esemplificativo di ciò che rappresenta il nuovo Queensryche. Il tentativo di raccordare old e new, forse solo per non tagliare i ponti con una identità artistica, è comunque presente, e rappresentato dallo stile canoro di Geoff, comunque a suo agio su riff ai limiti dell’alternative, forse gli unici possibili sulle ritmiche esotiche di cui è disseminato l’album. In questo contesto ben figurano anche “Blood”, senz’arte né parte nel platter, sempre in equilibrio precario tra vecchio e – scusate la provocazione – “nuovo”; e “Under My Skin”, con le dovute attenzioni più vicina alla scuola “Rage For Order”. Maliziosamente mi chiedo perché il ruolo di closer è affidato alla song più melodica del disco, “Doing Fine”… Sarà che un qualsiasi altro brano avrebbe lasciato nelle menti degli ascoltatori qualcosa di impalpabile e – se proprio lo volete leggere – antimemorabile?

Ai posteri l’ardua sentenza.

Tracklist:

1. Open
2. Losing Myself
3. Desert Dance
4. Falling Behind
5. The Great Divide
6. Rhythm of Hope
7. Tribe
8. Blood
9. The Art of Life
10. Doin’ Fine

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