Recensione: Tsar

Di Gianluca Fontanesi - 21 Marzo 2016 - 0:01
Tsar
Band: Almanac
Etichetta:
Genere: Power 
Anno: 2016
Nazione:
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80

« Tutti i sovrani russi sono autocrati e nessuno ha il diritto di criticarli, il monarca può esercitare la sua volontà sugli schiavi che Dio gli ha dato. Se non obbedite al sovrano quando egli commette un’ingiustizia, non solo vi rendete colpevoli di fellonia, ma dannate la vostra anima, perché Dio stesso vi ordina di obbedire ciecamente al vostro principe. »

(Lettera di Ivan IV il Terribile ad Andrej Kurbskij)

 

A volte basta poco per capire come sarà un disco, anche solo un nome, e il solo chiamare in causa un certo Victor Smolski dovrebbe già mettere in chiaro praticamente tutto. L’artista bielorusso, uno dei migliori mai comparsi nel nostro genere preferito, ha ormai consolidato da tempo uno stile e un marchio di fabbrica praticamente inconfondibili. La separazione dai Rage era ormai nell’aria da parecchio tempo, addirittura inspiegabilmente desiderata da parecchi fan che non ne avevano gradito fino in fondo la svolta orchestrale, portatrice si di gradi dischi ma anche di un parziale snaturamento del sound della band tedesca. Non siamo qui comunque per parlare del passato ma degli Almanac, la nuova band di Victor che inizia una nuova carriera con Tsar. La formazione presenta sia vecchia conoscenze che suonarono  su Lmo (Jeannette Marchewka, Enric Garcia e la Orquestra Barcelona Filharmonia) che nuovi elementi nell’universo Smolski come Andy B. Franck (Brainstorm), David Readman (PINK CREAM 69), Armin Alic e Michael Kolar. Musicalmente niente di nuovo sotto il sole, ma il presentarsi con tre cantanti in formazione è una scelta parecchio interessante che si rivela vincente fin dai primi ascolti. Tsar inizia dove Lmo finisce e cerca di portare il genere ad un altro livello; parliamo ovviamente di un power metal orchestrale epico, potente e ovviamente virtuoso che manderà in visibilio gli amanti del genere e sarà certamente in grado di procurare nuovi fan. Ma andiamo con ordine.

 

Tsar è un concept che parla di Ivan IV di Russia, meglio conosciuto come Ivan il terribile; siamo nel sedicesimo secolo quindi, e la titletrack parte in quarta con l’infanzia del sovrano, nella quale fu orfano di padre a soli tre anni (1533) e anche di madre cinque anni dopo. Il padre, Basilio III di Russia, in procinto di morire trasferì i suoi poteri alla moglie in attesa che l’erede raggiungesse l’età e le facoltà per sostenere il regno; in seguito alla prematura morte di Elena, Ivan a soli otto anni fu coinvolto in una vera e propria lotta di potere tra le due principali famiglie boiarde (aristocrazia russa),  gli Šujskij ed i Belskij, che vedevano in lui solo un inutile fantoccio. Fu qui che si formò il carattere diffidente e vendicativo del sovrano, e il buon Victor musica il tutto con la consueta maestria, che ormai non fa davvero più notizia. Tsar è un disco decisamente più potente di Lmo, lo si intuisce fin da subito con un assalto di riff serratissimi e zeppi di groove. Le due voci maschili si alternano dando un effetto davvero notevole e dire che il ritornello è riuscito è poco. Entra in testa immediatamente e funziona alla perfezione.

 

You Look Me In The Eye

Deeper Into The Night

Darkness Will Be My Guide

Once In My Life

My Rage Burns Inside You

 

Il ponte è ben strutturato e dà il giusto respiro al brano; buono l’assolo che lascia presto spazio alla ripresa del ritornello. Ottimo inizio per un disco che riesce a sfoggiare nove (meno uno) lunghi brani senza annoiare praticamente mai.

 

Self Blinded Eyes si focalizza su un periodo del regno nel quale Ivan fece uccidere chiunque non era d’accordo con lui; diventò sempre più popolare grazie anche a nove stermini di massa descritti come un processo di pulizia. Questi avvenimenti, assieme alla presunta morte per avvelenamento della prima moglie, Anastasija Romanovna Zachar’ina, contribuirono ad accentuare la parte negativa del carattere di Ivan che diventò dominante durante gli ultimi anni del suo regno. Primo singolo dell’album accompagnato dal video girato al castello di Ehrenburg, si rivela ben presto un pezzo devastante e tra i migliori proposti negli ultimi anni da Victor. Ha il solo difetto di avere il riff portante un pochino accademico e scarno, ma sono dettagli; il tema iniziale, poi ripreso nel ritornello, è magnifico, le linee vocali sono grandiose e il tutto è contornato da un ponte davvero notevole e da assalto totale. Cosa chiedere di più?

Darkness è un piccolo interludio orchestrale posto a introdurre la seguente Hands Are Tide. Qui si parla della depressione di Ivan, delle sue delusioni e dell’omicidio del figlio; si parla del suo annientamento interiore e della totale solitudine come naturale conseguenza. Ivan si sentiva posseduto dall’oscurità e consultava molti cartomanti, faticando a distinguere realtà e finzione.. La traccia è sorretta da un mid tempo devastante in cui è naturale pensare ai Rage più recenti, che sfocia presto in una grandissima prestazione da parte dei tre cantanti e in un inaspettato ritornello quasi aor. Ponte e assolo sono a livelli altissimi, ma ormai non fa più notizia.

 

Children Of The Future sposta l’azione verso il fiume Volga e le conseguenze della rivolta che fu sedata dall’esercito; il punto di vista però qui è di un ribelle, che racconta della loro lotta per il futuro della Russia e le generazioni a venire. Provare per credere, la breve intro orchestrale rimanda al palco di Sanremo e, mentre ti aspetti la fuoriuscita di Gino Paoli o ancora peggio di Patty Pravo con più chirurgia che anima, ecco i tre cantanti che fugano ogni dubbio e riportano tutto alla normalità. Qui siamo su un buon up tempo che esprime tutto il meglio di se in fase di ritornello e col ponte davvero micidiale.

La sezione ritmica è sempre sugli scudi e il basso leggermente penalizzato dal mixer; tastiere ben inserite e amalgamate. Nel complesso non vi è nulla da segnalare, e a questi livelli non c’è da stupirsi; la prestazione di Victor, come al solito, merita un capitolo a parte. Chitarrista stratosferico, tra i migliori in circolazione nell’universo metal se non il migliore; musicista eclettico, completo, delicato, devastante, tecnico, di gran gusto e andare avanti risulta inutile. Gli si può solo appuntare un non aver voluto osare e l’aver giocato sul sicuro, ma se il risultato sono brani come questi, anche questa critica decade.

 

No More Shadows racconta la storia della proclamazione di Ivan come Gran Principe Di Mosca su richiesta del padre, a soli 8 anni, e descrive come sarebbe potuta essere la vita di un giovanissimo in quell’importante posizione. L’introduzione è affidata a strumenti tradizionali russi e il brano si dipana in momenti di diverso spessore e intensità; il minutaggio è piuttosto alto come tutti i brani dell’album, e l’inaspettato ritornello di puro heavy metal ci consegna un altro eccellente sigillo, con anche un paio di richiami a Empty Hollow ed Edge Of Darkness. Nevermore parla delle vittorie delle truppe zariste contro i ribelli, che trasformarono la Russia in uno stato multietnico e multiconfessionale. Lo Zar ora controllava l’intero fiume Volga e ottenne l’accesso all’Asia centrale; si parla quindi dell’accettazione del proprio destino da parte dei ribelli, consapevoli ormai che i tempi di morte e dolore non sarebbero più ritornati. La traccia è un power metal classico che si assesta su livelli sufficienti ma non di eccellenza come le precedenti composizioni, complici le linee vocali e il ritornello abbastanza molli e poco memorabili unite a una partitura non molto ispirata e al servizio del pezzo.

 

Reign Of Madness ci trasporta al diciassettesimo secolo e all’ennesima battaglia attorno al Volga,  coi ribelli inviperiti a causa di decisioni prese dai codici del 1649 che ufficializzavano il vincolo dei contadini alla terra. Di fatto lo stato sanzionava i servi della gleba rendendo reato il lasciare le terre del proprio signore e i nobili avevano sempre più un totale controllo sui contadini. Il primo e unico lentaccio dell’album è davvero un grande brano: si inizia con un arpeggio e un incedere heavy e oscuro, quasi doom. Nella strofa finalmente si sente Jeanette anche se per poco, e l’apertura si alterna con la seconda strofa in un saliscendi riuscitissimo. Il ritornello sa d’altri tempi e lo si canta praticamente al primo ascolto.

Flames Of Hate si occupa dei Bogatyr, un gruppo di mercenari della tradizione medievale slava; gente buona, onesta, ricca ma dannatamente crudele. La conclusione dell’album è più che degna e affidata a una traccia zeppa di sfaccettature. C’è un po’ di tutto qui: dalla strofa potentissima all’inciso evocativo fino ad arrivare al ritornello quasi festaiolo. C’è anche tempo per un momento oscuro e sinistro posto appena prima del grandioso e magniloquente ponte.

 

Tempo di trarre le conclusioni, che dire che non sia già stato detto?

Vi era piaciuto Lmo? Se sì, fiondatevi a pesce in questa nuova avventura firmata Victor Smolsy e converrete con noi che si tratta dell’ennesimo grande disco prodotto dal bielorusso. In Tsar non c’è niente di fuori posto o contesto; è tutto studiato alla perfezione e ben calibrato. L’ascolto totale del disco difficilmente arriva alla noia e siamo certi che resisterà piuttosto bene anche alle intemperie del tempo. Musicalmente la scelta dei tre cantanti si è dimostrata vincente, di certo migliorabile ma vincente; Tsar segna un nuovo inizio per Victor e lo segna in maniera degnissima anche senza stravolgimenti nel suo sound di base. Forse proprio qui sta l’inghippo: l’essere stilisticamente immobili paga solo se sei in grado di scrivere grandi brani, e Victor in questo senso dimostra di avere ancora parecchie cartucce da sparare, speriamo solo che duri. 

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