Recensione: Tuonela

Di Daniele Balestrieri - 8 Ottobre 2001 - 0:00
Tuonela
Band: Amorphis
Etichetta:
Genere:
Anno: 1999
Nazione:
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90

Uno degli album più emblematici del gruppo metal finlandese più famoso finalmente online! La più grande testimonianza, forse, che si può passare dal black più estremo al metal più decadente senza perdere di tono. Questo è Tuonela, dei grandi Amorphis.

Tra le fredde lande finlandesi, nel gennaio del 1999 prende forma Tuonela, ottava release di uno forse dei gruppi più multiformi del panorama musicale scandinavo, un gruppo passato gradualmente dal black più estremo a quello che può definirsi viking metal, prima di scivolare verso un metal sottile e decadente, per poi cambiare ancora una volta forma nel metal elettronico di Am Universum, vero album ufficiale dopo questo stesso Tuonela.

Il disco di per se non offre molto, almeno dal punto di vista prettamente compositivo. Del resto chi conosce gli amorphis sa che la loro capacità di rendere un album interessante risiede nella ripetizione ossessiva di riff, una peculiarità assorbita dal metal generale e immediatamente riproposta con la fermezza della loro grande esperienza e il fascino di un metal tutto nordico, tutto loro.

E questo Tuonela, diciamolo subito, è un album che non tradisce l’altissima qualità alla quale ci ha sempre abituato il leader Pasi Koskinen. Tuonela è un album molto “amorphis” negli stilemi, ma al contempo prende grandi distanze dal precedente Elegy e dal seguente Am Universum. È un album che può facilmente fare breccia anche nel cuore dei più estremisti black metallers, per il semplice fatto che nelle tristi sonorità di queste canzoni risiede anche il passato di un gruppo che tanto ha dato al black metal, e tanto ha ricevuto. E il tema principale di Tuonela, infatti, è il lento volgere della vita verso la morte. Fin dalla affascinante copertina, che vede un semplice ramo di un arbusto immerso nei sabbiosi colori autunnali, si intravede la finissima decadenza che tanto dona a un simile album.

Le dieci canzoni mantengono tutte sonorità simili, pur accompagnando l’ascoltatore lungo un iter che mostra, con semplici parole, quanta bellezza e fascino ci può essere in tutto ciò che si volge a morire, con un occhio di riguardo per la natura, grande fulcro di tutte le loro creazioni. Possiamo guardare l’album come un cerchio che si chiude, come una vita che nasce, si evolve e piano piano muore… come in un conto alla rovescia, come in un perfetto nodo gordiano: si contano le canzoni dalla prima alla decima, come in un orologio… e il tono, grazie alle canzoni molto legate tra di loro, inizia ad avere accenni di pietà verso il centro, per scivolare verso l’angoscia e la morte finale. Le canzoni vengono riconosciute con la semplicità dialogica di un bambino. The Way, la prima, Morning Star, Nightfall, Tuonela, Greed, Divinity, Shining, Withered, Rusty Moon e Summer’s End. Tutte arricchite da strumenti poveri quali il flauto o una lieve percussione lignea, strumenti che non impoveriscono le potenti chitarre e la voce limpida e leggermente roca del cantante.

Poche parole, alle quali si contrappongono evoluzioni testuali di tutto rispetto, tra le quali spiccano la tristissima Tuonela (che qualche recensore “autoritario” ha osato accostare a qualche canzone strappalacrime tipiche dei gruppetti pop che infestano le televisioni pubbliche, niente di più falso) e la angosciante, decadente nonché quella forse emotivamente più carica, Summer’s End. La fine dell’estate, la fine di tutto. La canzone che forse più di tutte contiene l’emblema dell’album stesso. La strofa “you will see what could be evergreen / turn to copper, and fade to grey – vedrai che tutto ciò che sembra sempre verde / prima o poi si trasforma in rame, e sfuma in grigio.

Il ritmo martellante, sicuro, è inevitabilmente votato a decadere in una eco lontana che certamente funge da degna chiusura a un CD che si presta ad essere ascoltato in solitudine… di fronte alla natura che si spegne al tramontare del sole.

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