Recensione: Ugly Noise

Di Vittorio Cafiero - 29 Gennaio 2013 - 0:00
Ugly Noise
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Anno: 2012
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50

Bisogna ammettere che fa una certa impressione vedere la parola “autoprodotto” accanto ad un nome tutto sommato storico come quello dei Flotsam & Jetsam, eppure, per chi ancora non se ne fosse accorto, la “musica è cambiata”: sia nel senso metaforico, con la necessità gioco-forza di trovare strade alternative per la pubblicazione dei dischi, che nel vero senso delle parole, con la scelta dei musicisti di cambiare, evolversi e cercare nuove soluzioni, spesso inaspettate per gli appassionati.

Tutto ciò per introdurre Ugly Noise, undicesimo album per la storica band di Phoenix, che questa volta utilizza il sistema PledgeMusic (strumento di crowdfunding basato sul web che permette ai sostenitori di finanziare la registrazione di un disco, in cambio di anticipazioni esclusive, download o cd messi a disposizione prima dell’uscita standard e gadget assortiti) e lo fa per dare alle stampe un lavoro che davvero lascia interdetti. Se, infatti, con il precedente The Cold i nostri avevano certamente colpito nel segno, pur ammorbidendosi rispetto al passato, attraverso un lavoro ispirato e appassionato, con Ugly Noise Erik A.K. e soci compiono l’ennesima deviazione verso territori inattesi. E di certo non troppo convincenti.  
Non appena ci si immerge nell’ascolto, si notano subito un paio di elementi: pezzi brevi, non necessariamente vicini al metal in senso stretto, trionfo di mid-tempo, voce in primissimo piano: ingredienti per nulla sconvolgenti, certo, ma mescolati in una ricetta poco significativa, se non davvero discutibile.
Ed è un vero peccato che l’album prenda una piega così priva di mordente, in quanto la title-track posta in apertura è un pezzo di qualità, oscuro e d’atmosfera, che alterna sapientemente rallentamenti ipnotizzanti a scatti di rabbia quasi isterica. Si prosegue e il primo neo che salta all’attenzione è la mancanza di incisività delle chitarre: la cosa stupisce, soprattutto se si pensa che Ugly Noise vede il ritorno alle asce della fortunata e storica coppia Edward Carlson/Michael Gilbert, già presente su lavori osannati come Doomsday For The Deceiver e No Place For Disgrace. Gitty Up, infatti, è un breve pezzo dove le chitarre si producono in riff abbastanza anonimi e anche la fase solista scorre via senza impressionare, mentre Run And Hide, dopo un inizio rarefatto e lisergico, si trasforma in una semplice base che permette al vocalist di declamare strofe ad effetto forse più utili all’assolo di un musical che ad un disco heavy metal.
Non è possibile affidare l’intera architettura dei pezzi alla sola linea melodica, benché questa sia a cura di un pezzo da 90 come Erik A.K, con le chitarre che si limitano a sostenere la voce con riff per niente decisi. Attenzione, qui non si parla di un disco troppo poco ‘heavy’, ma di un songwriting poco convinto, per nulla incisivo, in modo particolare nella sua parte strumentale.
Si prosegue e si denota un’alternanza tra trovate di classe e passaggi a vuoto: non basta infatti un bridge di categoria (come in Play Your Part, ad esempio), un vocalizzo azzeccato o un giro di chitarra giusto per fare grande un pezzo, soprattutto quando è il songwriting in sé ad essere poco brillante. Pezzi come Carry On e Rabbit’s Foot possono essere un discreto sottofondo. Ma chi vuole un sottofondo di “soft-metal” dai Flotsam & Jetsam?
Si prosegue e durante l’ascolto, chi scrive diverse volte ha percepito sensazioni simili a quelle avvertite affrontando gli ultimi lavori targati Queensryche, involuti su se stessi e incapaci di lasciare il segno come una volta. Una generalizzata atmosfera di incompiutezza, per intendersi meglio.
Il riffing e i cori di Rage, possono inizialmente far pensare agli episodi teatrali dei Savatage, ma davvero siamo lontani da quel pathos e quella drammaticità: la sensazione, proseguendo nella tracklist, è quella di avere a che fare con una miriade di false partenze, pezzi preliminari al botto che purtroppo non arriva. E non solo, tra un pezzo anonimo e l’altro, spuntano episodi come Motherfuckery, quasi indisponente con i suoi inserti elettronici e la sua inconsistenza di fondo (esperimento alternativo davvero malriuscito) e come la noiosissima I Believe, fin troppo lunga nei suoi tre minuti scarsi. Senza andare troppo indietro nel tempo e nella discografia, dov’è finita la rabbia di una Hypocrite?, la classe di una The Cold?, lo splendore di una ballad sentita come Better Off Dead?
 
Dopo molti ascolti, anche dilatati nel tempo, il responso è chiaro: solita prova da dieci e lode di Erik A.K. (certamente uno dei cantanti più sottovalutati e snobbati dell’intera scena) che ancora una volta si dimostra interprete di razza, all’interno di un lavoro opaco e trascurabile. Attenzione, Ugly Noise è tutt’altro che il canto del cigno, perché tra le sue tracce si percepiscono ancora diverse zampate di classe che lasciano intendere come il quintetto di Phoenix non abbia davvero detto l’ultima parola: ma è lecito aspettarsi dai Nostri qualcosa di più di questo lavoro evanescente. Questa volta non ci siamo.

Vittorio “Vittorio” Cafiero

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Tracklist:
1.Ugly Noise               
2.Gitty Up             
3.Run and Hide             
4.Carry On             
5.Rabbit’s Foot               
6.Play Your Part         
7.Rage                 
8.Cross the Sky             
9.Motherfuckery             
10.I Believe             
11.To Be Free             
12.Machine Gun

Durata: 47 minuti c.a.

Line-up:
Eric A.K. – Vocals
Edward Carlson – Guitars
Michael Gilbert – Guitars
Jason Ward – Bass
Kelly David Smith – Drums

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