Recensione: Ultimate Whirlwind Of Incineration

Di Daniele D'Adamo - 6 Luglio 2014 - 9:44
Ultimate Whirlwind Of Incineration
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Anno: 2014
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76

 

Tre lustri di scorribande, un EP, una compilation, quindici split e quattro full-length.

Questi, in estrema sintesi, i numeri della carriera dei grinder statunitensi Pretty Little Flower. Che, a dispetto del moniker gentile, antitesi voluta, eruttano violenza musicale da tutti i pori. “Ultimate Whirlwind Of Incineration”, difatti, concentra in venticinque minuti di bestiale ferocità le due principali caratteristiche del grindcore classico: bizzeffe di riff granitici e velocità parossistiche del ritmo. Sì, ‘classico’, poiché il trio di Houston tiene basso il livello *-core – più evidente nelle formazioni inglesi, nelle quali il DNA è permeato dal punk – per alzare quello del thrash. Alla maniera, quindi, dei precursori del genere come i D.R.I., Suicidal Tendencies e S.O.D., che nella prima metà degli anni ’80 unirono la scarna rudezza dell’hardcore alla potenza del thrash, dando luogo a quello che, all’epoca, si definì ‘crossover’. Tutto ciò per far capire quale sia lo stile scelto dai Pretty Little Flower per mettere a ferro e fuoco l’auditorio. I quali, in più, aggiungono proprio il tocco necessario, a parere di chi scrive, per compiere l’ultimo passo in direzione del grind: il growling rabbioso e soffuso di Dave Callier. Perché, non bisogna mai dimenticarlo, alla fine il grind fa parte della grande famiglia del death metal, seppur dotato di vita propria; indipendente dal metallo della morte, per l’appunto.   

Difficile dire cosa possa dare di diverso “Ultimate Whirlwind Of Incineration” alla scena grind rispetto a quanto già dato da altri in oltre trent’anni di storia. Probabilmente, anzi sicuramente nulla. Il che non significa necessariamente che i Pretty Little Flower si configurino come una band ‘inutile’. Al contrario, quando dal punto di partenza di una foggia musicale si accumulano i decenni, la tendenza naturale dell’uomo a evolversi – anche musicalmente – può portare a dimenticarsi di quei fondamentali dettami stilistici che, piacciano o meno, hanno scritto la storia della foggia medesima. Il combo texano, invece, sembra esserci apposta, qui, per ricordare a tutti quale sia l’indiscussa consistenza tecnica e artistica, nel circuito del metal estremo, del grindcore così ‘come mamma l’ha fatto’. Oggi come ieri. Comprese le song dannatamente brevi e super-compresse di ferocia o quel suono ‘a scatoletta’ del rullante, croce e delizia degli appassionati ma che, a mo’ di dogma, deve esser preso così com’è. Volenti o nolenti.
 
E, a proposito delle quindici (ancora!) canzoni, non resta che osservare che esse non esulano dal ragionamento generale sul grind, che le porta a essere osservate nel loro insieme invece che nella loro singolarità. Davvero difficile se non impossibile memorizzarne qualcuna per via della loro voluta similitudine, assieme formano un ariete dalla potenza di sfondamento esagerata. Del resto, il muraglione di suono eretto da Callier con i suoi impressionanti, apocalittici riff (“Pinned Beneath The Flaming Wreckage”, “Human Hunter: Future Butcher”) non presenta alcuna soluzione di continuità nella granitica superficie, impossibile da scalfire per chiunque. Tanto più che Bryan Fajardo non pare essere a conoscenza di pattern diversi dai quattro quarti iper-accelerati e dai blast-beats, lasciando i mid-tempo agli altri colleghi.

Niente di nuovo sotto il sole, quindi, ma tanta anzi tantissima concretezza e fedeltà alla linea. Il che basta e avanza per fare di “Ultimate Whirlwind Of Incineration” un lavoro da mettere in primo piano fra le uscite di quest’anno del genere.

Bravi, bravissimi.

Daniele “dani66” D’Adamo
 

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