Recensione: V.I.T.R.I.O.L

Di Daniele D'Adamo - 26 Settembre 2016 - 0:00
V.I.T.R.I.O.L
Etichetta:
Genere: Black 
Anno: 2016
Nazione:
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80

Forget your world and open your souls because the great procession comes.

Esoteric black metal.

Ennesima sotto-definzione del black metal. Stavolta, per definire qualcosa di scuro e intenso, dotato di franca brutalità, complesso, sospeso fra il rituale alchemico e la pratica introspettiva. In sostanza, ciò che suona il duo transalpino che prende il nome di Pénitence Onirique. Il quale, temporalmente quasi assieme alla sua nascita, ha forgiato il proprio debut-album, intitolato “V.I.T.R.I.O.L”.

“V.I.T.R.I.O.L” che, come poche altre opere di black metal, trasuda in maniera impressionante del feroce, invincibile, struggente mal di vivere. Non si tratta di misantropia, qui. Non c’è l’istintiva proiezione verso la chiusura in se stessi allo scopo di diminuire quanto più possibile la propria sofferenza.

Spesso il male di vivere ho incontrato
era il rivo strozzato che gorgoglia
era l’incartocciarsi della foglia
riarsa, era il cavallo stramazzato. 
(Eugenio Montale, “Spesso il Mal di Vivere”, da “Ossi di Seppia”, 1925)

Le cinque splendide suite che compongono “V.I.T.R.I.O.L” sono espressione di un black metal veloce, rabbioso, violento. Quasi raw. Scevro da tastiere, come tiene a sottolineare la coppia transalpina. Libero da eccessi melodici, duro, diretto, frontale. Devastato da eterni blast-beats; trafitto, lacerato dal disperato screaming di Diviciacos. Qua e là fa capolino il post-black, con le sue eteree armonie (‘V.I.T.R.I.O.L’). Ma, del resto, le forme più avanzate di black metal, oggi, pare non possano fare a meno d’intingere il pennino nel nero calamaio dell’eerie-emotional music.

Così, il soffuso alone di dolore psicologico che si associa al mal di vivere, aleggia tutt’intorno al platter, caratterizzando in modo deciso, fermo e costante il mood delle song, travolte da quella strana sofferenza che, spesso e volentieri, con la ragione, non si riesce a spiegare.

Non c’è mai pace, serenità, felicità. La sezione ritmica messa su da Bellovesos è elaborata apposta. Per materializzare il tappeto, tessuto a maglie ferrate, sul quale erigere le montagne di riff disegnate dalle chitarre. Riff tristi, malinconici, strazianti. A tratti addirittura commoventi, come nella fenomenale “Carapace de fantasme vide”, che rotea, turbina, vortica assieme ai moti dell’anima. Moti sinistri, complessi, articolati. Non-lineari, evidentemente retaggio di un ristretto insieme di uomini che, a occhi spalancati, assistono sbigottiti all’impotenza della propria mente. Abbastanza intelligenti da intuire il perché delle cose, ma non così tanto da trovare la chiave della serratura della porta che chiude la stanza dei sogni. Quelli che, se realizzati, davvero potrebbero porre fine, finalmente, a quel dannato, maledetto, corrosivo mal di vivere.

Di conseguenza, l’anima striscia sul pavimento, in eterno, dibattendosi inutilmente per fuggire dal supplizio (‘L’âme sur les pavés’), tribolando senza capire perché, ma percependolo soltanto (‘Le Soufre’). Gli straordinari ricami della sei corde di Bellovesos appaiono davvero un tutt’uno con la lacerazione dello spirito, dando la concreta sensazione di una tormentosa prigionia in un corpo inadatto a sostenere l’immaginazione della mente, le sue illusioni, la sua brama di gioia.

Ancora una volta, ed è l’ennesima, il binomio Emanations / Les Acteurs de L’Ombre Productions mostra l’altissimo livello artistico raggiunto e mantenuto con costanza dalla scena francese nel black metal moderno. Una scena che, al momento, a parere di chi scrive, è la migliore del Mondo.

Daniele D’Adamo

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