Recensione: Valkyrja

Di Tiziano Marasco - 24 Ottobre 2013 - 1:33
Valkyrja
Band: Týr
Etichetta:
Genere:
Anno: 2013
Nazione:
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76

Tornano i Týr, con il loro settimo album, in pieno rispetto della tradizione che li vede sfornare una prova di studio ogni due anni ormai da diverso tempo. Che dire di questo gruppo delle isole Fær Øer che con dischi quali Eric The Red o How Far To Asgard avevano lasciato intuire nuove vie per un Viking metal meno visionario degli Enslaved, meno filologico degli Ensiferum, eppure interessante e degno di nota?

Beh c’è da dire che Land aveva causato una piccola spaccatura nelle schiere dei loro estimatori (“il power ce li ha portati via” disse un tempo il saggio della montagna), eppure aveva aumentato notevolmente il seguito dei quattro, che di lì in avanti avrebbero trovato una sorta di via di mezzo. Una via di mezzo che ritroviamo ancora in questo Valkyrja, storia di un cavaliere che abbandona la propria donna per conquistare appunto la guerriera della mitologia vichinga e riservarsi così un posto nel Valhalla. Il sound che qui troviamo è proprio quello dei Týr di nuovo corso, prog defunto, sezione ritmica a mjöllnir e chitarra fulminea presa in prestito a certo death svedese. Per un risultato che, credeteci o meno, risulta fantastico nella sua tamarraggine.

Sì perché i Týr qui ci regalano 11 pezzi duri e tirati, ma altresì permeati da una pacchianità che solo i Manowar hanno saputo ricreare. Due pezzi come Blood of Heroes e Mare of The night non dicono nulla di nuovo eppure sono talmente stereotipati da riuscire irresistibili. The Lay of Our Love è una ballata che tutti noi abbiamo sentito mille volte eppure il duetto tra Joensen e l’ospite d’eccezione Liv Kristine funziona assai bene. Fallen Brother rischia un po’ con un cambio di ritmo forzato e brusco, finendo per essere paradossalmente il brano meno riuscito della selezione. Decisamente meglio va ad Hel Hath My Night con il suo ritornello trafugato ad Hin Vordende Sod & Sø degli Ásmegin.

Altri pezzi in cui la tamarraggine spadroneggia incontrastata sono l’inno solenne Grindavísan, ottima da cantare dopo la sesta birra inventando le parole (è in madre lingua), nonché Into the Sky o Lady of The Slain (qui anche dopo la sesta birra riuscirete a capire il testo). Infine, i sette minuti di Valkyrja, contro ogni aspettativa, non aggiungono granché al resto del disco. Non ci troviamo davanti ad una cavalcata d’ampio respiro, ci troviamo semplicemente innanzi ad un brano guidato da ritmiche più lente che strizza vagamente l’occhio ai Blind Guardian e chiude degnamente un disco omogeneo, compattissimo, a suo modo d’impatto, e decisamente ben costruito per soddisfare un’ampia schiera di fan.

Che dire, il dio degli impiccati torna tra noi e fa della sua parola una legge. Non stravolge nulla, non inventa nulla, ma conquista senza remore grazie a compattezza, stereotipi e ad un songwriting che, per quanto semplice e scontato possa apparire, risulta essere d’altissima scuola. Qualsiasi altra band provasse un’impresa simile, ovvero riproporre e ingrandire cliché triti e ritriti, finirebbe per prendere 40, al massimo 45 in un impeto di pietà. I Týr no. Quelli arrivano, scendono dal Drakkar e danno fuoco a chiunque gli si pari davanti.

Tiziano “Vlkodlak” Marasco

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