Recensione: Valley Of The Windmill

Di Roberto Gelmi - 8 Luglio 2016 - 10:00
Valley Of The Windmill
Band: Circa
Etichetta:
Genere: Progressive 
Anno: 2016
Nazione:
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75

Si prospetta una calda estate e tempo di vacanza da occupare con della buona musica… Per gli amanti del neo-prog. rock è appena uscito un album, via Frontiers Records, che si presenta con tutti i possibili crismi beneauguranti. Copertina pacifica, titolo essenziale, tracklist ridotta al minimo (con ben tre suite), cosa chiedere quale miglior refrigerio nella canicola di luglio?
I Circa, supergruppo nato nel 2007 da una costola degli Yes di Union, tagliano il traguardo del quarto studio album. Tony Kaye (primo tastierista degli Yes) e Billy Sherwood (erede del mito Chris Squire e con all’attivo svariate partecipazioni a prog. act più o meno effimeri), affiancati da Scott Connor (a sostituire Alan White dal 2010) e Rick Tierney, propongono quasi cinquanta minuti di progressive rock old school. Il comunicato stampa ufficiale parla di «”super proggy” with influences ranging from classic Yes and Gentle Giant – Band, to Porcupine Tree and latter-day Marillion. An absolute must for all Prog Rock fans!» (un album davvero prog con influenze che spaziano dai classici Yes e Gentle Giant ai Porcupine Tree e gli ultimi Marillion. Un must assoluto per tutti i fan di Prog. Rock!) Stupisce, però, anzitutto la prolificità di Sherwood: risale al novembre scorso, infatti, il suo ultimo album solista, Citizen, ricco di ospiti (Steve Morse, Jordan Rudess, Alan Parsons, Steve Hackett) tra i quali Chris Squire, alla sua ultima prova in studio di registrazione.
Nonostante qualche lecito dubbio, il supergruppo non delude con un platter che vive di un grande lavoro delle tastiere e regala paesaggi sonori tra il nostalgico e l’onirico. Nell’opener vengono in mente gruppi come i Pallas e i già citati Gentle Giant, ma la voce di Sherwood per i neofiti del genere può ricordare anche quella del continuatore di Fish, Mark Trueack (ex-Unitopia). Siamo di fronte, insomma, a un prog. rock che deve molto a band come Yes e Genesis, con un’ugola sempre su linee vocali alte e spesso filtrata.
Il quarto d’ora di cui vive l’opener, “Silent Resolve”, prende avvio in un crescendo a effetto. Le tastiere dominano incontrastate, il guitarwork è dimesso ma un minimo incisivo, le parti di batteria precise e abbonda l’hammond. Lo stacco al min. 3:24 è geniale, uno stop and go fulminante, con cambio di tempo e un riff di chitarra acustica vellicante, sorretto da un basso corposo e il ritmo dettato dalle bacchette di Scott Connor. Si avverte il lato ludico del progressive che fu, un vero tuffo nel passato più nostalgico. E con la lunghezza della composizione come la mettiamo? Il minutaggio scorre placidamente, come un fiume dalla fonte alla foce. Alcune accelerazioni di Sherwood e le ritmiche un minimo svecchiate rispetto ai Seventies non fanno avvertire alcuna noia, ovviamente se siamo fan di prog. rock per niente commerciale! Dopo il ritorno circolare del nuovo main theme, alla fine del nono minuto viviamo istanti sospesi con synth d’organo e una voce lontana (a tratti troppo sgradevole), ma tutto riprende confortante, con abbellimenti infiniti di tastiera, come fosse un mosaico policromo. Il finale resta melodico, alato e impreziosito dal dialogo chitarra-tastiera. Più aggressiva la successiva “Empire Over”. I tempi dispari abbondano, a tratti sembra di ascoltare i Transatlantic. Il main theme cadenzato è comunque di matrice Yes, il vero divertimento è seguire le continue variazioni e gli assoli che si susseguono senza soluzione di continuità. Anche il refrain non è male, corale e liberatorio. La titlte-track si rivela una ballad distensiva, peccato per i limiti oggettivi della voce di Sherwood, ma è prendere o lasciare. Nella seconda parte il sound torna corposo e scoppiettante, gl’inserti acustici passano in secondo piano. Gli ultimi secondi presentano un’immancabile parte a cappella, come in un full-length di Neal Morse.
Non avrebbe senso parlare di ultimo pezzo considerando una scaletta così breve. “Our Place Under The Sun”, infatti, occupa più di un terzo del platter, una monster track d’ascoltare tutta d’un fiato. Per di più il brano inizia subito su ritmi notevoli per i primi 80 secondi e vive di continue schiarite e ripartenze. Rick Tierney al basso non lascia tregua, memorabile la coppia ritmica che lo vede affiancato a Connor. Il settimo minuto regala momenti di sollazzo puro e Sherwood ripropone il suo stile retrò che deve molto al maestro Steve Howe. Tutto funziona come per magia, non si avverte alcuna fatica compositiva, ma si torna alla realtà con l’ennesima strofa stridente canta da Sherwood con voce filtrata. A metà brano il tema portante di cinque note e una finta cadenza rilanciano la composizione oltre il limite impavido del decimo minuto. La capacità che hanno i Circa di rivitalizzare i propri brani da un momento all’altro ha qualcosa di sorprendente, da questo punto di vista sono gli eredi e continuatori degli Yes più meritori. Le parti strumentali restano i momenti migliori di questra traccia e dell’album tutto, l’affiatamento del combo è generale. La sosta nel posto assolato potrebbe durare un’altra decina di minuti, ma i nostri decidono di metter un freno alla propria creatività, così ritroviamo infine il leitmotiv, un filo nostalgico, a cullarci verso una conclusione che pare in pianissimo, non fosse per gli ultimi empiti chitarristici di Sherwood, che tiene a chiudere in bellezza una prova di grande maturità solistica.
In definitiva la Frontiers Records vince estemporaneamente lo scontro a distanza con la specialista InsideOut, che con il progetto Stolt-Anderson ha fatto un mezzo passo falso. I Circa suonano meglio anche degli Yes di Heaven and Earth. In futuro forse sarà necessaria una maggiore sete d’innovazione, non si può sempre vivere con lo sguardo volto al passato; per il momento, però, resta musica di cui abbiamo certamente bisogno.

 

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