Recensione: Vargstenen

Di Daniele Balestrieri - 28 Giugno 2007 - 0:00
Vargstenen
Band: Månegarm
Etichetta:
Genere:
Anno: 2007
Nazione:
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93

Non sono solito iniziare le recensioni in questo modo, tuttavia Vargstenen è un’eccezione. Permettetemi, prima di partire, un piccolo flusso di coscienza.

Seguo i Månegarm da molto tempo, fin dall’uscita di Nordstjärnans Tidsålder, quando non c’erano mailorder e trovare un CD scandinavo che non fosse mainstream era di una difficoltà disarmante… quello era un periodo in cui bastava un nome non inglese a suscitare un interesse quasi esotico nei confronti di un disco. Li ho sempre reputati un’ottima band, che ha vissuto nell’oscurità fino a Havets Vargar e che ha visto via via la luce sia grazie all’evoluzione della rete e sia grazie all’introduzione delle webzine che hanno portato al grande pubblico delle realtà difficilmente rintracciabili nel negozietto sotto casa. Ai Månegarm non ho certo lesinato voti alti: all’inizio qualche punto in più era dovuto un po’ per promozione del genere e un po’ perché il loro stile era fresco e incisivo; in seguito i voti si sono mantenuti alti semplicemente perché i loro album erano dannatamente ben fatti, complice anche una veste grafica di prim’ordine e una produzione di un certo rilievo.
Ma un recensore ha molti doveri: promozione, divulgazione, anamnesi spicciola, esposizione chiara e soprattutto il più possibile imparziale. Penso che sia giusto che una recensione riveli una certa passione, ma il tutto deve consumarsi senza travolgere il giudizio finale. Alcune volte è facile, alcune volte è meno facile… e alcune volte ci si trova a dover esprimere un’opinione pensando al lettore, piuttosto che ai propri gusti personali. Per cui un album può avere un aspetto odioso per il recensore, ma che può non essere altrettanto incisivo per la maggior parte degli ascoltatori. Se detesto le voci femminili, non è detto che tutti la debbano pensare allo stesso modo, e non è possibile affibbiare 50 a un album “solo perché ha voci femminili”. In questo frangente, recensire diventa quasi una prova di professionalità, anche se amatoriale, che prevarica la semplice esposizione dei contenuti. Per quanto riguarda i Månegarm, nonostante l’indubbio coinvolgimento personale, ho sempre in qualche modo mascherato la mia reale opinione. Ora che è arrivato Vargstenen, e proprio per colpa di Vargstenen, ritengo necessario un piccolo “outing”.
Devo confessare che non ho mai apprezzato fino in fondo i Månegarm. Certo sono una band ottima, abile, ispirata e umile, tuttavia ho sempre pensato che gli mancasse qualcosa. Nordstjärnan è distruttivo, ma troppo epilettico: le parti folk sono esageratamente frammentarie e dispersive. Havets Vargar è un picco di violenza, ma per me è un album di difficile assimilazione, e soffre di una certa monotonia che non ho mai gradito fino in fondo. Dödsfärd, Vredens Tid. Bell’accoppiata, ma tremendamente canonica. Canzoni come “I Evig Tid” e “Hemfärd”  sono rimaste nella memoria di ogni viking metaller che si rispetti, sempre e comunque nell’ambito di una struttura tanto professionale quanto comune. Strofa, coro, strofa, ritornello, accelerata. Violini che si accoppiano alle chitarre e le sostengono fino all’ultima nota. I vecchi Månegarm solcano le acque di un fiume fatto di band già affermate e di altre band che non hanno avuto nemmeno il tempo di nascere, ma che se nascessero probabilmente si unirebbero alla piena nella quale fluttua la band svedese. Il genere di cui sono araldi è ampio, scoperto, pronto ad accogliere decine di cloni, che magari non diventeranno mai bravi o famosi come loro, ma che avranno le loro stesse caratteristiche. Per me, insomma, e la cosa doveva rimanere più o meno nascosta in fase di recensione, i Månegarm erano una di quelle band da “sì… MA… se solo…”, una band che poteva sfondare e non trovava il modo, forse perché non era nemmeno percettibile. L’irresistibile Urminnes Havd, poi, nella mia personalissima opinione, ha suonato contemporaneamente due campane diverse: quella della consacrazione all’arte e quella del funerale dei Månegarm. Disco di una raffinatezza spregiudicata, a cui si possono paragonare solo le migliori produzioni dei Lumsk e di Vintersorg, e allo stesso tempo un ripiego piuttosto drammatico nel folk atmosferico, che gli avrebbe garantito magari 100.000 copie di venduto ma che li avrebbe abbandonati nel mare rilassato di quel folk metal che va particolarmente di moda ultimamente e che irretisce, a ragione, migliaia di fans avvezzi ai generi più disparati. La concentrazione, in tutti i sensi, che sotto sotto ho sempre desiderato dai Månegarm sembrava essere praticamente perduta.

Questo finché un giorno nella mia cassetta della posta non compare un dischetto infilato in un cartonato verde scuro. “Toh, Vargstenen, Finalmente.” – una reazione composta più di maniera che di genuina aspettativa. Mi aspettavo il solito buon disco con un paio di hit da capogiro, molte belle canzoni in stile Vredens Tid, un paio di filler, un paio di atmosferiche, quel tipico disco da ascoltare di fila per due settimane e poi ritirare fuori ogni tanto. Tra l’altro, non sono quel tipo di persona che si lascia prendere da ogni disco al primo ascolto: anzi, tutt’altro, in genere i dischi al primo ascolto mi fanno quasi tutti schifo. Ricordo ancora quando sentii Elegy degli Amorphis per la prima volta, ritenendolo un insulto a tutti i vecchi fans di Tales from the Thousand Lakes, salvo poi rivalutarlo, e di brutto, con il passare dei mesi. Vargstenen dunque possiede un primato: mi ha devastato al primo ascolto. Un colpo secco, dietro la nuca. Giunto alla fine di “Eld” mi sentivo ubriaco di un qualcosa che aspettavo forse da dieci anni, forse di più, e che mi ha travolto come un treno in corsa, un Eurostar – anzi, uno Swedenstar – senza freni.
Impossibile descrivere a parole le emozioni di questo concept album basato sull’epopea di un uomo alla ricerca della propria anima di lupo. Una manifestazione di talento a briglie sciolte, il racconto di una saga in musica con la semplicità e la maestria di chi ha saputo creare, e mischiare con sapienza, album come Vargaresa e Urminnes Havd. Alcuni momenti topici mi hanno tagliato quel fiato che non ho mai recuperato dai tempi di Kivenkantaja e Hin Vordende Sod og Sø, ed è una sensazione che pensavo non sarebbe mai tornata facilmente.
Perché Vargstenen è così bello, nel senso estetico del termine? Beh, le ragioni sono molteplici. Vargstenen è un album completo. Tra i suoi solchi c’è tutto: epicità struggente, ballate folk dai ritmi scozzesi, lunghe cavalcate heavy che non sfigurerebbero in mostri sacri come Running Wild o Grave Digger e staffilate sferzanti degne del black atmosferico scandinavo di primo pelo. È tutto qui dentro, ed è il suo dosaggio a fare la differenza tra una band qualunque e una band con sei album completi alle spalle. In molte band ogni tanto il folk è troppo poco, ogni tanto è troppo, ogni tanto il black stride con l’heavy e ogni tanto le melodie troppo cadenzate trascinano a fondo un album, come se avesse legato al piede un sasso di troppo.
In Vargstenen i riff sono semplici ma maledettamente incisivi: pensiamo a “Visioner på Isen“: giro di violino, chitarre austere, atmosfera palpabile, e la mente inizia immediatamente a viaggiare. Come in Visioner på Isen, così in “Ur själslig död“, la musica di Vargstenen trasmette di colpo immagini a raffica: è questo il pregio unico di quest’album – l’immaginativo, il viaggio mentale, e il tutto senza l’abuso di funghi o polverine strane. È come leggere una saga in musica, in cui le note iniziano da subito a creare forme, colori, e chiunque può immaginare quest’uomo che cammina, corre, combatte e si imbatte in creature fantastiche mantenendo l’ingenuità e la facilità di interpretazione di un bambino.
Abbiamo già assistito a scenari simili in dischi come Red for Fire o La Masquerade Infernale, e qui parliamo di capolavori conclamati, ma per interpretarne le immagini bisognava avere uno stato psicologico recettivo, un’apertura mentale proiettata nel cosmo della storia antica, o delle menomazioni mentali, in un turbinio eclettico di non facile interpretazione: molti vedono in dischi di quel tipo una certa tracotanza stilistica che compiace l’élite degli ascoltatori, e che può risultare estremamente ostica per chi nella musica non riesce a vedere trattati di filosofia o psicologia.

Vargstenen “atterra” il concetto di filosofia e lo semplifica in un flusso di emozioni dirette, grezze, mai troppo elaborate, ma terribilmente affascinanti. Nessuna evoluzione strumentale ai limiti dell’umano, nessuna pulsazione vocale che lascia intravedere anni di conservatorio e di addestramento tecnico. Lo struggente urlo di “En Fallen Fader“, travolgente ricordo in musica di un padre morto in silenzio, trascina come un’evoluzione Ulveriana o come un’intero passo dei Solefald con la naturalezza di una “fiamma che tremola dolcemente”. Erik Grawsiö ci dimostra che il canto può essere caldo come “Den Gamle Talar“, o freddo e sprezzante come “Nio dagar, nio nätter“. Due tracce in antitesi, che dimostrano come growling, screaming e voce pulita possono convivere nel nome di un concept che si sviluppa nel corso di dodici canzoni che celebrano quanto il Pagan – per non abusare dell’appellativo “Viking” – Metal utilizzi le risorse più disparate per trasmettere ogni genere di emozioni, dalla rabbia al dolore, dalla gioia al misticismo senza compromessi. E le risorse, senza particolari pretese, hanno donato a Vargstenen tre voci: la voce portante di Erik, la suadente voce femminile di Ymer e il violino di Janne Liljeqvist.

Perché in Vargstenen il violino ha una sua voce, e canta la sua canzone senza dipendere da chitarre o bassi, per quanto Markus Andé e Jonas Alqvist ce la mettano tutta per prendere posizione. Non è di certo la prima band a sfoggiare un violino preponderante, ma a differenza di Korpiklaani, tanto per nominare una band, lo strumento ha vita, non rinforza chitarre, non raddoppia battute, non supporta batterie allo scopo di vomitare un humppa incatenato tra fiumi di birra.
Tra l’altro, in quanto strumento che salta molto facilmente all’orecchio, il violino può diventare facilmente scomodo, rischiando di diventare il ritmo portante di una canzone all’interno di un genere che tradizionalmente si basa – e continua a basarsi – sul trittico di chiarre e bassi. In Vargstenen è apprezzabile invece il frequente silenzio dei violini, che lascia dunque emergere, nel nome dell’equilibrio compositivo, assoli al fulmicotone come quello contenuto in “Genom världar nio“, violentissima esplosione dannatamente Grave Diggeriana preceduta da momenti di pathos intenso (delle ali che frusciano tra le foglie, nel veloce ticchettare di una chitarra solista) e seguita da autentiche esplosioni di timpano, che rievocano immagini intense grazie ai testi ottimamente arrangiati.

Inutile proseguire, Vargstenen è un’esperienza ogni ascoltatore farà propria in maniera differente. L’unica nota leggermente stonata, a mio avviso, è purtroppo la batteria, che risulta in più di un frangente talmente artificiale da urtare i nervi, ma questa considerazione si ricollega a quanto detto in apertura della recensione: per me, che giudico la batteria fondamentale nel metal, qualsiasi imperfezione in questo frangente rappresenta un deterrente molto pesante; ma altri non si sono nemmeno accorti dei riverberi decisamente innaturali dei tom, per cui – nonostante non possa passare del tutto inosservato – in realtà potrebbe non essere un problema rilevante per tutti. Anzi bisogna dire che dopo il trecentesimo ascolto, probabilmente non si nota nemmeno più di tanto, specie una volta giunta l’assuefazione. Vargstenen è un viaggio ogni giorno nuovo, che parte alla carica con i suoi assoli irresistibili e ispira con le sue linee vocali degne di un Grawsiö nella forma migliore.
Chi apprezza il genere lo acquisti a occhi chiusi: il digipack è in forma di libro brossurato, con dodici magnifiche illustrazioni di Kris Verwimp, ognuna riferita a un capitolo della Saga della Pietra del Lupo. La produzione come al solito si attesta su livelli qualitativi più che buoni, complice anche il passaggio di testimone da Displeased Records a Black Lodge, e la solidità dell’opera finale difficilmente lascerà indifferenti gli amanti degli album ben strutturati e soprattutto coerenti con il genere proposto. Per quanto mi riguarda, Vargstenen è l’album dell’anno, con buona pace di Moonsorrow e Finntroll. Dovrà battersela solo con i Rotting Christ e il loro Theogonia, e sarà l’inverno prossimo venturo ad avere l’ultima parola.

“Questo concept album è un viaggio attraverso il cuore e l’anima di un uomo pagano,
la cui fiamma appassionata quasi si spegne in mezzo alla via.
Quest’album è per coloro che verranno, nati sotto la vivida luce dei cieli del nord… questo è il futuro.”

Vargstenen, 2007.

TRACKLIST

1 – Uppvaknande
2 – Ur Själslig Död
3 – En Fallen Fader
4 – Den Gamle Talar
5 – Genom Världar Nio
6 – Visioner på Isen
7 – Vargbrodern Talar
8 – I Underjorden
9 – Nio Dagar, Nio Nätter
10 – Vargstenen (5:34)
11 – Vedergällningens Tid
12 – Eld

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