Recensione: Vertigo

Di Stefano Usardi - 25 Giugno 2017 - 10:12
Vertigo
Band: Sound Storm
Etichetta:
Genere: Power 
Anno: 2016
Nazione:
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77

Progetto piuttosto ambizioso, questo “Vertigo”: tutto merito dei torinesi Sound Storm che, dopo il già più che interessante “Immortalia”, decidono di alzare l’asticella e presentare, per il loro terzo album, qualcosa di diverso dal solito, confezionando un prodotto che, oltre ad essere un album di power metal sinfonico dalle tematiche steampunk-vittoriane (il concept originale era basato sull’Inferno di Dante, rielaborato poi in chiave più intimista e riguardante un compositore fallito che, diciamo così, esce di brocca e, dedicatosi alla scienza, scivola sempre più in profondità nella sua mania distruttiva) funge anche da colonna sonora a una miniserie diretta da Taiyo Yamanouchi. Musica a tutto tondo, dunque, resa possibile anche grazie ai nuovi innesti che danno alla formazione nuova linfa: Elena Crolle alle tastiere, Alessandro Bissa (già con Vision Divine e Labirynth) alla batteria, l’ultimo entrato Sascha Blackice alla chitarra ritmica e Fabio Privitera (ex-Bejelit, tra le altre cose) alla voce.
Power sinfonico, si diceva poc’anzi, ma se state pensando all’ennesimo gruppetto che si limita a ripetere le stesse  tre o quattro melodie infarcendo il tutto con i soliti eterei gorgheggi tastieristici vi state sbagliando: qui ci troviamo davanti a gente che non solo sa suonare, ma che è anche dotata di un notevole buon gusto, che permette loro di amalgamare gli elementi peculiari di questo genere (orchestrazioni maestose e cori delicati un po’ dappertutto, per dirne due) con parti più tirate ed echi atmosferici quasi ambient senza appesantire il risultato finale, screziando il tutto con passaggi più variegati che rendono l’album un unicum eterogeneo e seducente, benedetto da arrangiamenti di gran classe e una spiccata teatralità, caratteristica fondamentale visto il presupposto di partenza.

Una delicata ma inquietante intro dal leggero profumo di Danny Elfman ha il compito di creare l’atmosfera per la successiva “The Dragonfly”, vera traccia d’apertura, in cui i riff asciutti e distorti della coppia d’asce si fondono con partiture delicate di piano e il cantato variegato di Fabio, che alterna toni alti e puliti a sporadici momenti più graffianti. L’intermezzo centrale, più delicato anche grazie all’incursione di voce femminile, cede il passo a una sezione strumentale dal vago sapore progressive, salvo poi tornare nel mondo dei cori eterei e delle sporadiche distorsioni in tempo per il finale. Con “Metamorphosis”, invece, i nostri puntano sull’impatto, confezionando una cavalcata magniloquente sorretta da una sezione ritmica quadrata ma tutt’altro che banale in cui i cori si intrecciano perfettamente alla voce di Fabio. Anche qui, arrivati a metà del brano, c’è posto per un’incursione solista dall’accentuato sapore progressive, elegantemente stemperato dal lavorio di chitarre e tastiere, prima di tornare ai ritmi più arrembanti che ci accompagnano verso il finale. “Forsaken” indurisce ancor di più la proposta dei nostri, partendo a spron battuto con un classico riff heavy su cui si innesta un cantato a tratti furente, seppur sorretto dai soliti cori maestosi. L’immancabile rallentamento centrale apre a una fase più distesa nella progressione del brano, in cui melodie rilassate si intrecciano ad un sottobosco effettistico solo apparentemente fuori contesto. Le velocità si fanno meno tese per indulgere in una certa dilatata maestosità che trova il suo coronamento nel solo di chitarra, finché il suono del piano richiama tutti all’ordine per un finale che riprende, seppur in modo speculare, la progressione iniziale e sfuma nella successiva e sognante “Original Sin”. Qui è il delicato incedere del piano a farla da padrone, mentre la voce di Fabio si insinua tra una melodia e l’altra aprendo la strada al resto del gruppo, che si ritaglia con pazienza il proprio spazio passando da momenti delicati ad altri più sfarzosi, salvo poi scemare pian piano fino alla più oscura “The Ocean”. Le tastiere tornano a profumare di Danny Elfman, mentre la coppia di chitarre tesse il proprio tappeto di riff sorretta da una batteria cafona e da una voce decisamente versatile. La tipica maestosità dei nostri non si fa aspettare troppo, ed ecco che pian piano si riappropria della scena, caricando la canzone di molteplici sfaccettature e permettendole di saltellare senza sforzo tra atmosfere diverse. La malinconia sembra essere il tratto distintivo della strumentale “Spiral”, introdotta da una melodia compassata e carica di pathos che si sviluppa lungo i suoi quattro minuti alternando cori suadenti ed accenni più speranzosi, salvo poi tornare al solo pianoforte per il mesto finale che si collega alla seguente e più sostenuta “Gemini”. Qui le melodie ricamate dalle tastiere cedono presto terreno a un brano più aggressivo, caratterizzato da un chitarrismo frastagliato in cui si insinuano schegge della maestosità tipica dei torinesi ed un Fabio che passa senza soluzione di continuità da una voce pulita a un cantato decisamente più arcigno. Il brano mantiene questo andamento mutevole fino alla  fine per poi cedere il passo ad “Alice”, un intermezzo atmosferico dominato dall’intreccio dei cori e utile per creare una certa aspettativa in vista della conclusione dell’album ma, tutto sommato, superfluo se non viene visto nell’ottica dell’album/soundtrack. La chiusura è affidata alla, diciamo così, suite finale: “The Last Breath”, con i suoi otto minuti, è la traccia più lunga di questo “Vertigo”, e si gioca il tutto per tutto dispensando maestosità e pathos a piene mani. Nella prima parte i ritmi sono scanditi, solenni, e le melodie dilatate conferiscono alla composizione un’aura da titoli di coda della vecchia scuola, quando la minaccia è stata sventata e la tanto sudata pace torna a rallegrare tutti i sopravvissuti; improvvisamente la canzone si anima, accelerando sensibilmente i ritmi e caricandosi di nuova enfasi grazie a riff serrati e una resa vocale ancor più pomposa mentre si avvicina la fine della storia, chiudendo quest’ottimo lavoro con la dovuta maestosità e la giusta dose di delicatezza.

Che dire, dunque, di “Vertigo”? Che di certo si tratta di un gran bell’album: ammaliante, maturo ed ottimamente strutturato, e che nonostante qualche ampollosità di tanto in tanto ha nel perfetto equilibrio dei suoi vari livelli il suo principale punto di forza. Se siete amanti del metal sinfonico o semplicemente cercate un album elegante e di classe, non vedo motivi per cui non dobbiate far vostro questo lavoro.
Ben fatto.

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