Recensione: Vigilance Perennial

Di Stefano Santamaria - 22 Marzo 2017 - 0:00
Vigilance Perennial
Etichetta:
Genere: Black 
Anno: 2017
Nazione:
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68

Quarto capitolo discografico per gli statunitensi Falls of Rauros. La band, attiva dal 2005, ci scrive nella lingua del black metal, utilizzando poi pennellate di folk, e sfumature di uno sperimentalismo in stile Nachtmystium

Ambientazioni ovattate, e poi crescendo che idealmente ci liberano dalle catene della sofferenza. Full-lenght indubbiamente personale, che si muove su lidi diversi, non fissandosi su distorsioni, ma esplorando sempre generi ed espressività poliedriche. C’è molto spazio per le melodie, e per un’ariosità che al contempo resta pregna di una foschia fredda, che tutto riga di pianto. 

Ci vengono anche in mente realtà musicali quali Agalloch, o Fen, pezzi che toccano il post rock per atteggiamento e musicalità. I Falls of Rauros non lesinano le classiche partenze di batteria, in cui la voce poi si incastona come gelido vento, soffiando e sbuffando via germogli di una vita dormiente. Ciò che poi però si riesce ad ammirare, è appunto questa fiamma che non viene, come spesso accade nel black, uccisa dal gelo. 

Chiusi in un luogo ospitale guardiamo la bufera abbattersi, riscaldandoci e raccontando di leggende. Pagani ricordi scivolano in uno sguardo malinconico, trasformandone l’aspetto. Riflessione serena che non tedia, e che si compone ad esempio in ‘Arrow & Kiln’ in uno sviluppo lento, in un fraseggio di chitarra e tastiere che ruba la lucentezza dell’heavy più classico, ma solo per un attimo. 

Il disco resta così tra quell’indefinitezza dei Nachtmystium, di quei suoni ovattati e che con maestria celano idee, stuzzicando l’ascoltatore, e quell’armonia e poetica del pagan. Lapilli di folk poi innestano frizzantezza e giovialità, unitamente ad una eleganza che ha in sé la calligrafia del progressive

“Vigilance Perennial” è così un lavoro intessuto con pazienza, e che altrettanta ne richiederà all’ascoltatore per poterne cogliere tutte le più intime sfaccettature. Ciò che manca è la consistenza di alcuni momenti più ruvidi, un’indefinitezza che come capita a volte nella scuola americana, non regala quella passionalità e trasporto che incontriamo magari in altre scuole,  come quella norvegese ad esempio. Detto questo, il full-lenght è consigliato a chi ama il filone e vuole vedere l’azzurro del cielo tra le nuvole e la neve che tutto ricopre. Perizia tecnica e sensibilità non mancano, vedremo se con il tempo arriverà anche  quell’incisività necessaria a fare il definitivo salto di qualità.  

Stefano “Thiess” Santamaria

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