Recensione: Walk In The Fire

Di Fabio Vellata - 6 Febbraio 2009 - 0:00
Walk In The Fire
Band: Strangeways
Etichetta:
Genere:
Anno: 1989
Nazione:
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100


AOR.
Una definizione semplice eppure sibillina, che molto spesso genera dubbi ed indecisioni sul proprio reale significato.
Adult Oriented Rock, sostiene sicuro qualcuno, indicandone così i contorni morbidi, “adulti” e meditati, intesi come maturi e non sospinti dalla proverbiale sfacciataggine adolescenziale, tipica d’espressioni più sfrontate, ruvide e rombanti.
All On Radio, intendono altri, specificando in tal modo, un acronimo riferibile a quei tanti, innumerevoli, album partoriti dalla scena americana degli anni ottanta – inizio anni novanta, in possesso di una caratteristica peculiare e significativa. Quella di essere adatti, nella loro interezza, all’air play radiofonico, certi che, qualsiasi brano della scaletta offerta, sarebbe stato ben inseribile in una programmazione studiata per essere gradita agli ascoltatori dei tantissimi network d’oltreoceano dell’epoca (“Raised on Radio”, avrebbero titolato, non a caso, i fenomenali Journey).

Quelli che non hanno mai generato dubbi, sono stati invece i grandissimi maestri del campo, capaci con i loro prodotti di tratteggiare con sapienza e mestiere i contorni di un genere mitico ed indimenticabile, fatto di sogni e raffinatezza, classe e sensazioni positive.
Journey, Survivor, Boston, Toto, Foreigner, Giant, una lista lunga con, all’apparenza, un unico comune denominatore: le stelle e le strisce della bandiera statunitense.
Eppure anche oltre oceano non si stava a guardare. Magnum, FM e Shy, erano presenze consolidate e di grande valore, intriganti miscugli di suoni americani, alimentati dallo stile europeo, in una miscellanea che più volte si era rivelata vincente e di grande efficacia, sublimazione di un approccio alla musica che sapeva rivestirsi di contorni onirici ed ovattati, sapeva rapire e trascinare in un universo parallelo ed entrava in contatto con la parte più intima dell’animo per scuoterla e nutrirla con emozioni e brividi.
Quella trascinante forza immaginifica, quello straordinario uragano di passioni che, ove spinto ai massimi vertici d’espressività, garantiva la nascita di rappresentazioni musicali paragonabili ad angoli di paradiso, ad un’estasi musicale assoluta ed incomparabile.

Padrone di questa “arte del sogno” fu, tra gli altri, anche un nucleo di musicisti dalla competenza sopraffina – guarda caso, misto euro-americano – spesso dimenticato nelle citazioni illustri eppure capace, nell’arco di un paio d’album, di scrivere indelebilmente il proprio nome tra le stelle ed i miti intoccabili del genere.
Strangeways, un moniker oggi troppo poco conosciuto e mai sufficientemente nominato, autore di un primo, ottimo album nel 1984, seguito da due perle dalla bellezza davvero difficile da descrivere a parole, uniche e sensazionali come raramente sentito. Il grandioso “Native Sons” del 1987 e lo sfavillante “Walk In The Fire” del 1989, disco, all’epoca della pubblicazione, trattato con miope e criminale sufficienza dalla stampa specializzata per storie, squallide e pidocchiose, di favori negati ed amicizie compromesse.

Raggiunti nel 1986 dal singer statunitense Terry Brock, i fratelli Ian e David Stewart (rispettivamente chitarra e basso) ed il batterista Jim Drummond, d’origine scozzese, erano un nome già credibile e rispettato della scena. Il loro omonimo esordio (unico LP con il primo frontman, Tony Liddell), aveva, infatti, destato consensi unanimi in virtù di un songwriting agile e ben bilanciato, vicino allo stile d’oltreoceano, seppur memore di una visione prettamente europea nel costruire le melodie.
L’anno esattamente successivo, il 1987, fu il momento in cui la critica, riferendosi agli Strangeways sollevò veri inni di gioia e lodi a scena aperta.
“Native Sons”, distillato di pura classe dalle armonie ariose e ricche di feeling, aveva trovato in Brock un interprete perfetto, impressionante connubio tra Bob Catley e Richard Marx, in grado di garantire sfumature e colori a composizioni già di per se illuminate e ricolme di passione, in cui eleganza e classe cristallina, andavano a braccetto con tecnica e grande buon gusto. “Il miglior album AOR di tutti i tempi”, scrisse il celebre Derek Oliver di Kerrang, sancendo la nascita di un nuovo astro nell’affollato e ribollente panorama melodico di metà-fine anni ottanta.

Ma fu il 1989 la data davvero determinante, nel bene e purtroppo, anche nel male, per le sorti della band.
“Walk In The Fire”, terza pallottola sparata a botta sicura dal quartetto, si presentò sin da subito con prepotenza come la definizione totale dello Strangeways-sound, portando alla luce un complesso di melodie eroicamente orecchiabili, trasudanti magia, imbevute d’atmosfere oniriche e finemente elaborate, fresche come acqua sorgiva e piene di passione come un tramonto sul mare, che pure, rivelavano una natura ricercata ed un’immediatezza non istantanea, sorniona ed ineffabile. Un disco creato sulla base di un feeling indescrivibile che, come poche volte sperimentato, colpiva all’unisono cuore, anima e cervello, suscitando immagini cariche di poesia, luci abbaglianti, profumi estivi ed emozioni ampie come l’oceano.

Un attacco da capogiro, affidato ai refrain indimenticabili di “Where Are They Now”, “Danger In Your Eyes” e “Love Lies Dying”, dava la dimensione celestiale di quanto stava accadendo. Suoni impossibili per l’epoca (ad opera dello stesso Ian Steward), enormi, definiti e profondissimi, concedevano ampio spazio alle corpose trame di chitarra, poste su ritmi pulsanti e carichi di passione su cui si ergeva, potente, brillante e sicura, la voce del bravissimo Brock.
Un concentrato di atmosfere da respirare a pieni polmoni, calde e solari, dipinte dai colori intensi sapientemente suggeriti dal retro di copertina.
“Every Time You Cry”, proseguendo sulla medesima traiettoria, accendeva ulteriormente la fantasia, presentando una prova vocale dai contorni “soprannaturali” per carica e passionalità, unita ad accenni di tastiera minimi, quanto indicatissimi. Estasiante all’ennesima potenza, la coppia centrale dell’album si fregiava invece delle melodie torride e conturbanti di “Talk To Me” e “Living In The Danger Zone”, brani che tratteggiavano con inusitata efficacia, immagini da film americano, panorami oceanici e skyline metropolitani.
Meno battagliere, ma ugualmente affascinanti e preziose, “Modern World” e “Into The Night”, fornivano altro materiale per sogni ad occhi aperti, regalando ritornelli memorabili e suoni, ancora una volta, dalle profondità siderali.
Il finale, degno epilogo di un capolavoro dai contorni leggendari, si legava alla conclusiva “After The Hurt Is Gone”, ulteriore scheggia di magia estatica e stordente, ed alla penultima, roboante title track, “Walk In The Fire”.
La summa dell’arte degli Strangeways stava tutta li, nei tre minuti e trenta di questa breve ma frastornante canzone. Passione rosso fuoco, forza d’immagini incommensurabile, sentimento assoluto. Un brano dal ritornello enorme, “spaccapolmoni” e travolgente, un’onda incontenibile di bruciante ardore. Magnificenza pura.

Ignobilmente maltrattato dalla critica inglese, descritto come “un disco di seconda fascia, fatto da una band di prima fascia” e tacciato di scarsa ispirazione ed immediatezza nonostante recasse un carico d’eccellenza assoluta, un songwriting magistrale ed una forza emotiva riservata a pochissimi eletti, “Walk In The Fire” passò un po’ inosservato e non riuscì a confermare il successo di “Native Sons”, determinando così il tramonto dei sogni di gloria del quartetto euro-americano, ed il repentino addio di Terry Brock, deluso dal fallimento e rassegnato a rientrare in patria.

Solo il tempo ha reso un minimo di giustizia allo splendore espresso da questo eccellente e per certi versi, irraggiungibile esempio di puro ed incontaminato AOR. Solo da pochi anni, infatti, qualcuno ha riscoperto ciò che di grandioso gli Strangeways avevano saputo offrire all’universo del rock melodico, spargendo la voce e rispolverando brani inossidabili e credibili ancora oggi a distanza di ben quattro lustri.
Suoni attuali, ritornelli impossibili da dimenticare ed emozioni dispensate a piene mani, hanno condotto alcuni a considerare il terzo capitolo discografico della band dei fratelli Stewart come uno dei più grandi classici mai concretizzati in tale ambito, favorendo così la realizzazione di una serie di ristampe (addizionate di un paio di tracce live, piuttosto superflue) necessarie, quanto fondamentali.
I paesaggi incontaminati, i panorami infiniti, il tepore estivo, i contorni onirici e le melodie ipnotiche che le composizioni del gruppo scozzese esibivano fieramente con “Native Sons”, ma ancor di più, con il mastodontico “Walk In The Fire”, sono così potuti tornare ad affascinare schiere di cultori della melodia, riportando il nome del quartetto lassù, nell’olimpo dei più grandi di ogni tempo.

Strangeways. Walk In The Fire. Leggenda.

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Tracklist:

01. Where Are They Now
02. Danger In Your Eyes
03. Love Lies Dying
04. Every Time You Cry
05. Talk To Me
06. Living In The Danger Zone
07. Modern World
08. Into The Night
09. Walk In the Fire
10. After The Hurt Is Gone

Bonus track ristampa a cura della Majestic Rock Records:

11. So Far Away (live)
12. Where Do We Go From Here (live)

Line Up:

Terry Brock – Voce
Ian J. Stewart – Chitarre
David Stewart – Basso
Jim Drummond – Batteria
 

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