Recensione: Warrior On The Edge of Time

Di Tiziano Marasco - 22 Settembre 2014 - 3:25
Warrior On The Edge of Time
Band: Hawkwind
Etichetta:
Genere:
Anno: 1975
Nazione:
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85

Lives of great men all remind us
We may make our lives sublime
And departing leave behind us
Footprints in the sands of time

Ogni Hawkwindaro che si rispetti conosce questa strofa. Apre Assault and Battery, opener di Warrior on The Edge of Time, quinto album di studio della band inglese.

Probabilmente durante l’incisione di Warrior on the Edge of Time gli Hawkwind seguirono solo ed esclusivamente le proprie orme (footprints). Ma è innegabile che in quella prima metà degli anni 70 la comune inglese capitanata da Brock e Calvert stava riuscendo a rendere davvero la propria vita sublime, anche grazie all’uso del giusto propellente (altrimenti detto LSD).

Un buon disco autointitolato per aprire degnamente le danze. Un trittico di delizie per inventare un genere, lo space rock, da zero. Un doppio live per consegnare i propri successi alla storia. Una storia che, beffardamente, volterà loro le spalle proprio quando c’era da fare il gran salto, come già detto nella recensione di Hall of the Mountain Grill. Un disco, quest’ultimo, da cui non si può prescindere, volendo intraprendere l’analisi del suo successore, Warrior on the Edge of Time appunto.

Sì, perché Warrior on the Edge of Time sue le linee tracciate dal proprio predecessore, perfezionandole e rendendole ancora più professionali, per chiudere magnificamente il periodo d’oro del gruppo britannico, la united Artists durante la quale il vento del falco era più simile ad una comune hippie che ad un gruppo rock.

Hall e Warrior sono in effetti due dischi sonoricamente simili, decisamente meno hard di Doremi e molto più raffinati rispetto ad In Search of Space, ma soprattutto, si contraddistinguono per quelle basi vivide e genuine su cui si innestano tastiere e synth volte a creare grandi atmosfere acido-spaziali.

In questo i nostri possono essere stati agevolati da una formazione che, una volta tanto, non fu stravolta e rivoltata come un calzino. Unico cambio da segnalare è l’abbandono del tastierista Del Dettmar (e relativo accentramento dei synth nelle mani di Simon House), che andò a far musica in Canada, e che dal Canada non farà più ritorno. Ed ancora il Canada, o meglio, la polizia del paese nordamericano, avrebbe decretato l’abbandono, o meglio, il licenziamento di un altro membro della band durante il tour promozionale del Warrior. Stiamo naturalmente parlando di Ian Kilmister, arrestato per detenzione di droga (l’avreste mai detto) dopo uno show nell’Ontario. Ed essendo il bitorzoluto bassista recidivo, essendo egli dipoi divenuto sempre più incontrollabile in quel periodo, da vero spirito punk quale è sempre stato, non restò a Dave Brock scelta migliore che eliminarlo.

Un nuovo innesto di livello e invece Michael Moorcock, alla vocie e alla scrittura, anche se sarebbe più giusto parlare di reinserimento. Un nuovo arrivo che impreziosisce questo disco di alcuni interludi declamati da pura fantascienza, nonché di una certa concettualità sul fondo dell’album, essendo basato sul campione eterno, figura cardine della poetica dello scrittore. In tal senso è significativa The Wizard Blew His Horn, Standing at the Edge of Time e Warriors.

Ma venendo alla musica, che dire? Come detto, si seguono le tracce di Hall of the mountain grill, con una Assault and battery che pare una continuazione di psychedelic warlords, col suo testo costituito da una strofa, gli archi diffusi ed eterei ed il basso infernale di Lammy a creare un groove assolutamente pazzesco, laddove postprog e protopunk si incontrano come mai più sarebbe successo. L’assalto degenera e scema, Lemmy si fa meditabondo e Simon House sale in cattedra, le atmosfere e la voce di Brock si fanno messianiche per dar voce al vuoto dorato di Golden Void. Due canzoni opposte e legate, quasi fossero una encore progressive rock, che danno vita ad uno dei più epici cavalli di battaglia che il vento del falco abbia mai regalato all’umanità la sotto.

In seguito il disco recupera parzialmente le atmosfere di In search for space, con Opa Loka che é un piccolo riassunto di You shouldn’t do that, con la sua batteria martellante e le ritmiche ipnotiche, mentre The Demented King, altro capolavoro del disco, è una evoluzione colorata di We took the wrong Step Years ago. Magnu (come Dying sees) poi è un altro pezzo che riparte dalle atmosfere di Doremi e le arricchisce di sonorità orientali anticipando così Hassan i Shabba mentre Spiral Galaxy 28948 è un altro spettacolare strumentale liquido e fluttuante, tutto archi e flauti. A chiudere infine l’ennesima perla, King of Speed, sempre in bilico tra grateful dead e i Sex Pistols che verranno, una cavalcata che chiude un disco splendido e un’era splendida.

Qui giunti, la storia degli Hawkwind giungerà ad una svolta verso il basso. Si stringe un contratto con la Charisma records e si apre l’omonima fase, aperta da un disco tutt’altro che memorabile quale Astounding Sounds, Amazing Music. E il punk che era sempre stato insito agli Hawkwind di lì a due anni sconquasserà il mondo con la sua carica distruttiva, sbattendo agli Hawkwind stessi la porta in faccia. Perché il vento del falco era una comune di hippie e gli hippie il punk li voleva morti. Poco importa, con Warrior on the Edge o Time i britannici avevano scritto un altra pietra miliare della loro storia. Da lì in poi, si sarebbero trasformati in un’autentica leggenda.

Tiziano Vlkodlak Marasco

Topic dedicato al Vento del Falco

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