Recensione: Welcome Aboard

Di Eric Nicodemo - 29 Giugno 2016 - 8:00
Welcome Aboard
Band: Sail Away
Etichetta:
Genere: Heavy 
Anno: 2016
Nazione:
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68

La voglia di emulare le gesta dei gruppi esteri è sempre viva nel suolo italico, uno stimolo positivo che consente alla scena heavy nostrana di proseguire e attecchire al di là delle mode imperanti. Questo processo si rinnova ciclicamente nelle piccole band emergenti, in cui rientrano i torinesi Sail Away, capitanati dal chitarrista Francesco Benevento (Tearsfall, T.N.R, HellsHeaven, Roadskills) e dal cantante Federico Albano (Dragons, Emblema), entrambi provenienti dai Savage Souls e dagli Assedio (quest’ultimi autori di due dischi, “Prisoner Of The Time” del 2006 e “Sacred Fire” del 2008).

Arruolati Luca Guglielminotti (basso) e Alessio Piedinovi (batteria), il progetto salpa verso i reami dell’heavy più classico, dominato da cori camerateschi, chiari rimandi all’epoca d’oro del metal, citando gli onnipresenti Iron Maiden e i Riot e riportando alla mente l’iconografia piratesca dei Running Wild.

La title track cattura tutti questi elementi: i fragorosi inni vengono incorniciati dagli immancabili vocalizzi (“ho ho oooooh”), per creare l’atmosfera epica e lo spirito guascone di veri e propri lupi di mare dell’hard’n’roll. La voce si dispiega in una buona performance (seppur nella parte rallentata la pronuncia appare piuttosto forzata).

Another Sunday” conferma l’attitudine a citare la Vergine di Ferro nel suo rifferema d’abbordaggio e in alcuni lick chitarristici. Il refrain che ne scaturisce è frizzante e verace, riportando alla mente certo hard e punk rock (echi dei Blink 182 e degli Offspring) scanzonato piuttosto che la NWOBHM più dura e aggressiva (Tysondog, Tank, etc).

Al contrario, la ritmica che trasuda trash metal di “The Artificial Impostor” sembra prendere le distanze dalla precedente canzone. Questo solo in apparenza, visto che il ritornello ci riconduce verso la rotta e imprime la spinta decisiva alla song. Il risultato? Pochi minuti di genuina energia per un buon tonico, ideale da servire in sede live…

“Petals Of Blood” decide di spingersi oltre la solita formula: l’irruente pattern viene stemperato dalle parti dal ritmo blando mentre la sessione solista si tinge di neoclassico. Il ritornello è più articolato di quello proposto da “The Artificial Impostor” ma perde slancio rispetto al chorus semplice e genuino della suddetta song. Un episodio interessante, che deve correggere qualche forzatura e stereotipo (la voce fuori campo) per far affiorare le proprie potenzialità.

Pezzo più diretto e vivace è la veloce e divertente “Sweet Dried Rose”, valorizzata dal climax melodico e arrembante dell’ascia solista.

Ancora tempi frenetici con “Engraved In The Stone”, che dopo un intro marziale si getta nella mischia sonora. Le linee del coro mantengono una certa compattezza senza sacrificare l’appeal radiofonico e c’è sempre un assolo scattante e melodico a movimentare il songwriting.

La successiva “Giants Of The Dawn” preferisce intonare un ritornello più solenne e tribale secondo la grande tradizione dell’arena rock: carico ed enfatico, non dispiace nella sua essenzialità, pur senza stupire. Convincono, invece, a buon diritto le tonalità epiche e disperate degli assoli firmati Benevento, che offre una rilettura appassionata e appassionante della classica escalation chitarristica finale. Un passaggio da non perdere…

Chiudono il lavoro “Wine In My Glass” e “Immortals Hymns Shine One”. “Wine In My Glass” ripropone il tipico coro virile e senza fronzoli in modo simile alla precedente “Giants Of The Dawn”. Brillano nuovamente alcuni interventi della sei corde, che inseriscono venature melodiche intense, drammatiche e meno abusate rispetto alle consuete accelerazioni e alle liriche cadenzate.

“Immortals Hymns Shine One” è posto a sigillo del platter, in omaggio alla grande figura di Mark Reale, compianto leader dei Riot. Al di là dei riferimenti al combo statunitense sparsi nel testo (Rock City, Warrior, Overdrive, Angel, Born In America, Narita, Outlaw e tanti altre canzoni), lo sviluppo della canzone è canonico, con un refrain ormai collaudato. C’è, comunque, ancora spazio per dar sfoggio a gusto e maestria nel bridge centrale, dove il cesello solista scolpisce fulminee ed eleganti scale neoclassiche.

 

Filibustieri del Metallo

 

A fine ascolto, come capita per questo tipo di lavori, i vizi di forma appaiono evidenti: le citazioni sono ben riconoscibili dall’audience esperto e il senso di déjà vu si acuisce verso la fine del platter. Tuttavia, è il tipico ascolto che intrattiene senza strafare. Il solido tecnicismo dei componenti, infatti, rende l’esecuzione apprezzabile e le melodie arrembanti offrono un ascolto immediato e abbastanza scorrevole (con qualche intoppo dovuto ai suddetti cliché di songwriting…).

Detto questo, “Welcome Aboard” non dispiacerà ai defender e lascia la possibilità ai Sail Away di affilare le armi per la prossima incursione nei mari burrascosi del metal…

 

Eric Nicodemo

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