Recensione: What Should Not Be

Di Matteo Lavazza - 26 Novembre 2004 - 0:00
What Should Not Be
Band: Seventh One
Etichetta:
Genere:
Anno: 2004
Nazione:
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50

Secondo lavoro per gli svedesi Seventh One, che arriva dopo “Sacrifice”, datato 2002, e lavoro con cui il gruppo cerca un salto di qualità, che purtroppo a mio parere non c’è stato, anche se ammetto di non aver mai ascoltato il loro primo disco.
L’iniziale “Eyes of the Nation” è il tipico brano Power all’insegna delle belle melodie e dei riff di chitarra, base portante di tutte le composizioni del gruppo, che rinuncia totalmente alle tastiere. La canzone è indubbiamente ben scritta ed arrangiata, peccato però che manchi uno spunto d’interesse vero, che possa far risaltare il pezzo nel mare di canzoni Power che si ascoltano ogni giorno.
Tutto il disco è un susseguirsi di brani che formalmente sono quasi inattaccabili, grazie a belle melodie e buonissimi arrangiamenti, ma come detto anche per la canzone iniziale a tutte, o quasi, manca quella scintilla di originalità, o meglio la personalità, per riuscire ad emergere, ed è il caso di canzoni come “How Many Years”, che si risolleva un po’ grazie al ritornello, molto aggressivo e melodico allo stesso tempo, “Mercenaries Call”, altro brano con buoni riff e buoni cambi di tempo, senza però riuscire ad avere una marcia in più, “Ancient Oath”, pezzo Power pieno di cliché, che si fa ascoltare con piacere ma che non risulta, almeno per me, coinvolgente, “Awaken  Vision”, scontata Power ballad, la title track, “What Should not be”, ennesimo brano di Power metal “chitarristico”, sparato a 200 all’ora ma simile a molti altri, “Shattered Glass”, brano con quelch vago accenno prog, che perlomeno cerca di distaccarsi un minimo dai canoni del genre, senza però risultare, a mio avviso, particolarmente convincente.
Un discorso a parte lo meritano “Gallows Pole” e “Where Infinity Ends”, due canzoni che, al contrario del resto, risultano davvero convincente, grazie ad un tocco di epicità ed a tempi più lenti, che donano al tutto quel tocco di varietà che manca al resto del disco.
I suoni sono, come spesso accade a lavori di questo genere, tecnicamente perfetti, ma piuttosto freddi ed impersonali.
Tecnicamente il gruppo è decisamente ad un buon livello, peccato che la voce del cantante Rino Fredh sia una delle più banali mai sentite, simile ad altre centomila e senza la minima personalità.
I Seventh One hanno sfornato un disco che, come ho già ribadito più volte, difficilmente riuscirà ad imporsi in un mercato già piuttosto saturo di dischi del genere, e solo due canzoni che si distinguono sono a io parere poche per giustificare l’acquisto, peccato perché la band da sempre l’idea di voler provare a trovare una soluzione non banale, ma finisce sempre per andare a parare in soluzioni ormai abusate, direi che la frase che meglio può identificare questo disco sia “voglio, ma non posso”. Rimandati alla prossima occasione.

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