Recensione: When The Light Dies

Di Daniele D'Adamo - 27 Giugno 2015 - 23:54
When The Light Dies
Etichetta:
Genere: Black 
Anno: 2015
Nazione:
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78

Lo strazio, la disperazione, il dolore, la sofferenza, la consapevolezza di passare gran parte della propria vita ad approfondire il solco dell’anima con lacrime di sogno, sono emozioni, stati dell’esistenza, turbamenti che travalicano i confini delle nazioni, che non conoscono né latitudine, né longitudine.

Così, quasi incredibilmente, dall’underground messicano spuntano i Luciferian Rites, fautori di un incredibile black metal di pura matrice nordeuropea. Composti da tre personalità il cui tormento interiore raggiunge la soglia del malessere fisico, rassegnate a urlare la propria afflizione per la sola condizione di vita per loro possibile: la misantropia.  

Un sentimento votato all’ossessiva ricerca di una scontrosa, rabbiosa solitudine; nell’incapacità di venir fuori da quello stato di assenza completa di felicità che accompagna le persone cui alberga, in esse, sin dalla nascita e forse ancor da prima, il ‘male di vivere’. Atroce condizione umana che trova il suo ancestrale punto di partenza in un dogmatico pessimismo cosmico.

Questa babele d’impulsi, di percezioni, di sensazioni, così complesse, così intricate, trova un’inaspettata raffigurazione musicale in “When The Light Dies”, secondo full-length in carriera, capace di estrarre dal cuore abbattimento e afflizione per accordarli con quelli dell’Universo. La voce di Count Shadows è costernazione allo stato puro, devastata dall’indicibile patema di dover vivere, giorno per giorno, nascosti nell’ombra, immersi nella solitudine, infinitamente lontani dalla gioia di una vita addolcita da un amore nascente. Pure la chitarra di Abomination macina riff su riff tenendosi ben lontana da certi incomprensibili suoni ‘zanzarosi’, anzi sciorinando un sound chiaro, pulito ma soprattutto sprizzante tristezza e malinconia da ogni accordo. Ottima, anche, la volontà di avvalersi di un batterista umano e non di una drum-machine a mo’ di one-man band. Anche la batteria, seppur non sembri, ha un suo mood, un suo motivo di esistenza – anche quando diverge in direzione dei blast-beats – , e AntiChrist le dona quello del pianto. Lo stile dei Luciferian Rites non ha molto di diverso da quello del black classico. Non introduce né novità né velleità particolari. Ha un grande merito, però: piange. Piange lacrime amare, incessanti, che sgorgano dall’umano nucleo emozionale per non fermarsi mai, per irrorare con il loro sempiterno sapore salato tutte le song, sino a inzupparle di angustia.

A partire dalla stupenda quanto struggente “Eternal Misanthropy Of The Black Cosmos” sino a “Ghost In The Shadows” che, forse, negli intendimenti dei Nostri, è indicativa per mostrare che, alla fine, a tutto c’è un limite e quindi anche alla sopportazione di così tanta pena. Che, come per una stalattite, accumula le particelle di dispiacere che l’essere umano prova ogni giorno della sua vita, anche solo per la semplice, elementare autocoscienza di esistere. Per poi spezzarsi per il troppo peso.     

E i Luciferian Rites ci riescono, a mantenere costante quest’umore insopportabile che trapassa cuori e anime. Una continuità che non è mai spezzata da riempitivi – anzi, alcuni brani sono da eccellenza assoluta, come “Rotten Creed”, “A Dreadful Chant For Self-Destruction”: “When The Light Dies” è un vero, lucido, agghiacciante viaggio senza ritorno alle Montagne della Follia. Ove dimorano l’ansia, l’angoscia, la paura, il terrore, l’impotenza di dover assistere, impotenti, al progressivo, inarrestabile disfacimento dell’anima, distrutta dalla mestizia di un’esistenza senza alcuna speranza di salvezza.      

Fa freddo, sempre più freddo. Il nero assoluto del vuoto interstellare è il luogo finale. Lì, muoiono per sempre i sogni, le speranze, le illusioni, le fantasticherie, le aspirazioni. Per una vita diversa da questa. Per la quale l’unica forma di esistenza possibile è l’“Eternal Misanthropy Of The Black Cosmos”.  

Daniele “dani66” D’Adamo

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