Recensione: Where the Corpses Sink Forever

Di Emanuele Calderone - 29 Maggio 2012 - 0:00
Where the Corpses Sink Forever

Da quando i Fleshgod Apocalypse, i Rhapsody of Fire e i Septicflesh si sono uniti per dar vita ad un progetto black metal? Ah no, fermi tutti, sono solo i Carach Angren. Questa non vuole assolutamente essere un’introduzione ironica, semplicemente questi olandesi suonano come un mix, in salsa black, dei colleghi italiani e greci.
La band, dopo un demo ed un ep, incide “Lammendam”, full-length apprezzato da critica e pubblico, al quale fa seguito, nel 2010, “Death Came Through a Phantom Ship”.
A distanza di due anni da quest’ultimo, il combo torna sulle scene musicali con “Where the Corpses Sink Forever”.

Cos’è cambiato in questo biennio? Praticamente nulla, i Carach Angren continuano imperterriti per la propria via, senza cambiare di una virgola la rotta. Le orchestrazioni sovrabbondano, guadagnando sempre più importanza nell’economia delle composizioni e divenendo, anche se solo a tratti, davvero invadenti; ne consegue che chitarra, basso e batteria vengono relegati sempre più sullo sfondo e fungono da semplice accompagnamento. Il risultato? Altalenante, per una serie di motivazioni che cercheremo di analizzare nel corso della recensione.
Il primo aspetto che lascia piuttosto a desiderare è il riffing. Il lavoro di chitarra, per quanto tecnicamente pulito e preciso, risulta essere fin troppo scarno e lineare, oltre che estremamente prevedibile. Le linee di chitarra mancano totalmente di incisività e corposità, apparendo oltremodo anonime. Stesso dicasi per la batteria: infiniti tappeti di doppia cassa si alternano a furiosi blast-beat, che però non riescono a dare il giusto carattere alle musiche.
A risollevare parzialmente la sorti del disco ci pensa lo screaming di Seregor, capace di conferire cattiveria alle varie canzoni. La voce del cantante, sebbene sia decisamente standard, dona maggiore ferocia a pezzi che sarebbero risultati fin troppo innocui.
L’altro grande difetto, come detto, è proprio da ricercare nelle orchestrazioni, eccessivamente ridondanti e inutilmente cariche di fronzoli, che rendono il tutto kitsch.
Le canzoni -statiche come non mai- scorrono una dopo l’altra senza lasciare troppo il segno, regalando sussulti solamente di rado. Tra i brani meglio riusciti figura sicuramente la mini-suite “The Funerary Dirge of a Violinist”, che sfrutta al meglio il suo minutaggio per passare da momenti più pacati ad altri più tirati. Il risultato finale è sufficientemente interessante e i nostri si dimostrano, almeno in questo caso, discreti arrangiatori, oltre che buoni esecutori.
Niente male anche “Little Hector what Have You Done?”, nella quale il trio chitarra, basso e batteria pesta più forte che mai. Le orchestrazioni in questo caso convivono in maniera più armoniosa con gli altri strumenti.
Il resto rimane davvero troppo freddo e anonimo per poter rimanere impresso nella mente degli ascoltatori. Per di più si nota una fastidiosissima attitudine a “scopiazzare” troppo spesso band ben più affermate. Ciò evidenzia anche una mancanza d’ispirazione -e personalità-, che da il colpo di grazia ad un cd che difficilmente farà sfaceli.

A ben vedere, la parte meglio riuscita dell’intera opera è il “concept” attorno al quale si sviluppa il full-length. I testi si basano principalmente sugli orrori della guerra e sull’effetto che quest’ultima ha sulla mente umana. Leggendo le liriche si ha quasi l’impressione di essere realmente sul campo di battaglia in mezzo a fiumi di sangue che sgorgano in ogni dove.
In alcuni passaggi emerge un realismo davvero crudo che lascerà di stucco anche l’ascoltatore più freddo e distaccato. Volete un esempio di quanto appena detto? Eccovelo:

I can hear footsteps. Someone’s coming near.
Fuck! Should I stay? Disappear?
Es ist mein bester
Freund, diesem Soldat ist immer für mich da.
Quickly I put my Luger away. I thought this was my
last day but I failed!“
“Bitte tötet mich! Bitte tötet mich!


Da questo punto di vista il combo si dimostra davvero abile. Peccato che le musiche non siano della stessa caratura.

Le considerazioni finali non possono che portarci ad una semplice domanda. Perché? Perché ostinarsi a proporre una musica tanto piatta ed innocua, così derivativa e priva di spunti di interesse? Non sarebbe forse meglio cercare di creare qualcosa di più personale e brillante?
Per ora proprio non ci siamo. “Where the Corpses Sink Forever” è tenuto a galla solamente da una discreta produzione e dalla buona preparazione tecnica del combo, ma francamente ci pare davvero troppo poco per poter sperare di raggiungere un pieno livello di sufficienza.

Emanuele Calderone

Tracklist:
1. An Ominous Recording
2. Lingering In an Imprint Haunting
3. Bitte Tötet Mich
4. The Funerary Dirge of a Violinist
5. Sir John  
6. Spectral Infantry Battalions     
7. General Nightmare  
8. Little Hector What Have You Done?
9. These Fields are Lurking (Seven Pairs of Demon Eyes)

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