Recensione: Witch Fun

Di Andrea Poletti - 14 Gennaio 2017 - 7:11
Witch Fun
Band: Zorndyke
Etichetta:
Genere: Death 
Anno: 2016
Nazione:
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50

Dunque, gli Zorndyke, sono o meglio erano una band dedita al culto del metal undergound; quel death metal del profondo che più in basso ha solamente le fognature di Londra, una miscela ibrida tra il thrash il death degli anni 80 attraverso canzoni che paiono uscire dai peggiori incubi delle musicasette. Un mangianastri rovinato potrebbe essere il metro di paragone artificiale per descrivere la musica di questi Italiani; tecnica e/o capacità stilistiche, a parte la prima impressione che vine ascoltando “Witch Fun” è quella vi una ricerca al contrario della peggiore produzione sonora negli ultimi venticinque anni. Un compedio di canzoni che cerca di scavare poco a fondo, l’esempio di come una pomeridiana improvvisazione da tra amici ubriachi può diventare qualcosa di ipoteticamente credibile è tanto vero quanto surreale. Arrangiamenti scarni, idee che trovano alcuni spazi positivi e molti altri ancora di disctibile fattura; questa la dura realtà che emerge dal disco.

Prendendo a caso una qualsiasi canzone, che sia l’iniziale ‘Häxan’ con il suo incedere lento si stampo thrash o la terremotante ‘Ten Thousand Needles’ con il passo sgraziato ed a tratti proto-“Mortorhead”iano piuttosto che la old school ‘Oscolum Infame’ v’è un perchè di fondo,una volontà creativa idealizzata, ma è talmente risicato al minimo lo sforzo finale che va a deficitarne quel risultato vero e proprio che dovrebbe essere alla merce dell’ascoltatore. A livello generale si ascolta con piacere, senza impegno e con il desiderio di stapparsi una birra con l’amico a fianco, ma a fine tracklist la sensazione di non aver ricevuto nulla è per la maggiore. Certamente non tutti i dischi devono forzatamente andare porre quesiti sull’esisitenza dell’uomo o la fine dellla progenie, ma in proporzione i Tankard scrivono trattatiti filosofici. L’appoccio lirico che vede in brani quali ‘Be Bewitched’ il vocalist cimentarsi tra momenti più growl-oriented e harsh vocals al fulmiconotne riesce a raddrizzare la spina dorsale del tutto, diamo a Cesare quel che  è di Cesare; questa capacità porta va vista come plauso, ma è vero anche come molte delle linee armoniche scelte siano già parte dello storico di ogni metallaro base, v’è dunque una ripresa non molto velata di brani leggendari ricalcando la struttura compositiva di glorie del passato. Di buono ad ogni modo possiamo salvare come detto la sfrontatezza, l’impatto e la voglia di distruggere il palco; questi sono brani fatti e creati per essere suonati live, senza arte ne parte.

Il desiderio di vintage retroattivo degli ultimi anni ha portato molte gioie agli appassionati, andando però anche ad intaccare il mercato con scelte alquanto discutibili a livello meramente stilistico. Ad oggi gli Zorndyke paiono dissolti nell’acido della pentola della copertina, in status incerto che li vede quale incognita. In caso di un futuro proseguimento gli consigliamo di porre dei paletti, entro i quali andare a comporre canzoni definibili quale tali; l’omaggio all’old-school è apprrezzato ma qua siamo a livello di demo poco impegnative e di discreto utilizzo. Classico esempio di goliardia musicale.

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