Recensione: Wolfpack [EP]

Di Daniele D'Adamo - 4 Settembre 2014 - 20:04
Wolfpack [EP]
Etichetta:
Genere: Metalcore 
Anno: 2014
Nazione:
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78

 

Una storia discografica piuttosto ricca, quella degli Hopes Die Last, nati nel 2004 nello Stato della Città del Vaticano. Due EP autoprodotti (“Aim For Tomorrow”, 2005; “Your Face Down Now”, 2007), due full-length con la Standby Records (“Six Years Home”, 2009; “Trust No One”, 2012) e un terzo EP, anch’esso autoprodotto, uscito l’anno scorso a fine giugno.

Il dischetto, intitolato “Wolfpack”, è stato prodotto da Marco Mantovani e dalla band stessa presso i Sickboy Recording Studio di Roma, diretto da Marco “Becko” Calanca agli Skie Studio, con artwork di Trilathera Design&Multimedia. Un segno che, malgrado gli Hopes Die Last siano nuovamente senza label discografica, tutto sia stato realizzato con la massima serietà e professionalità.

A partire dallo stile. Metalcore moderno, anzi modernissimo. Assai melodico nonché abbondantemente incrociato con l’elettronica, genere evidentemente amato dai Nostri come si può evincere dalla cover di “Promises” dei Nero, trio britannico di dubstep. Malgrado tali caratteristiche, però, gli Hopes Die Last mostrano in ogni caso un’anima metallica di tutto rilievo. Fatta di stop’n’go e brutali breakdown, per nulla edulcorati dai numerosi ritornelli di buona fattura.

Già l’opener, “Hellbound”, è una bella mazzata sui denti, con l’isterico scream di Daniele Tofani a condurre le danze. Ben coadiuvato da Marco “Becko” Calanca, il bassista, che si dimostra anche valido vocalist in clean durante l’eccellente e melanconico refrain. Come melanconico è l’incipit electronic che apre la ‘quasi’ title-track “The Wolfpack”, song che fonda la propria anima romantica sulla forza erculea dei riff di chitarra unitamente alla riottosità della sezione ritmica. Con Tofani che ricorda vagamente, in certi passaggi, Corey Taylor degli Slipknot.  
 
Il resto di “Wolfpack” non mostra particolari cali di tensione rispetto alle prime due canzoni, a parere di chi scrive davvero riuscite in tutto e per tutto. Appare costante, in particolare, la capacità del sestetto di Città del Vaticano di produrre con freschezza e naturalezza chorus accattivanti, che si ficcano rapidamente e durevolmente in testa.      

Poco altro da aggiungere: i venticinque minuti di “Wolfpack” bastano e avanzano per rendere evidente che gli Hopes Die Last hanno ancora molte cartucce da sparare, in canna, e che il contratto discografico è, a questo punto, … un atto dovuto.

Daniele “dani66” D’Adamo
 

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