Recensione: Yía De Nuesu

Di Damiano Fiamin - 24 Maggio 2012 - 0:00
Yía De Nuesu

Secondo disco per gli spagnoli LLVME. A due anni di distanza da Forgeira De Sueños, la coppia di musicisti iberici torna a proporre il suo doom metal a tinte folk. Per farvi un’idea delle sonorità del duetto, pensate ai Moonspell. Dopo aver portato alla mente (e alle vostre orecchie) Ribeiro e soci quando erano agli albori della loro carriera, mettetegli in mano una cornamusa e un violino. Il risultato, sono i LLVME. Le affinità sono notevoli e non bisogna certo stupirsene: Montejo e Prieto sono originari della regione spagnola di Castiglia e León, confinante con il Portogallo e a esso sicuramente vicina per tradizioni e radici culturali. I testi dei brani sono tutti cantati in dialetto; lo stesso nome della band è un termine regionale che significa “fuoco”. Se questo, da un lato, ha un effetto straniante, dall’altro contribuisce a magnificare le atmosfere che costituiscono l’intelaiatura di base del CD. La dissertazione antropo-linguistica è durata sin troppo; vediamo, pertanto, come sono maturati in questi due anni questi due ragazzi dal punto di vista musicale. Accendiamo lo stereo e lasciamo che le note di Yía De Nuesu riempiano la stanza…

Il disco apre con 1188-1230, traccia dedicata al difficile regno di Alfonso IX, re di Castiglia e León, passato alla storia per le sue conquiste belliche e per i difficili rapporti con il papato dell’epoca, che mal tollerava le sue collaborazioni con i musulmani e i suoi matrimoni, consumati con donne troppo vicine nella sua cerchia parentale. Un brevissimo idillio strumentale si corrode rapidamente in una cupa e pesante scarica di percussioni gravide di potenza. Un leggero violino nella parte mediana stempera le atmosfere, una parentesi sognante che ci culla leggiadra prima di lasciarci precipitare nuovamente nel gorgo di sonorità ottuse e soffocanti, traghettati da una delle tante voci femminili che hanno partecipato alla registrazione del disco. L’album prosegue con Helmántica dove, nonostante gli archi di sottofondo, i due musicisti continuano a ruggire con veemenza, scaricando con forza le loro energie sugli ascoltatori. L’intelaiatura generale non è particolarmente varia, la sequenza ritmica è, bene o male, sempre la stessa, ma scorre senza troppo sforzo. Andiamo avanti con Vettonia, con un incipit decisamente folk: cornamusa e batteria si lanciano in un crescendo molto intenso che si carica prima di piombare in una caotica e dissonante esibizione stilistica, un po’ confusa, ma con un retrogusto epico che la rende comunque di piacevole ascolto. La conclusione ritrova la strada della melodia più orecchiabile e ci trasporta senza difficoltà verso Vaqueirada’l Baitse, un brano che esula completamente dal mondo metal, debitore di tradizioni popolari antiche, che porta alla mente più i Felpeyu che i Negura Bunget.
Una curiosa iniezione folk, con un canto che ci lascia immaginare terre congelate nel tempo e sapori arcaici… Torniamo in terreni più consoni con Cenceyu: i ritmi rallentano, i suoni si sporcano, mentre Montejo continua quasi a recitare i testi delle canzoni, tra violini e tastiere. Il contrasto tra growl e armonie delicate è una delle formule ricorrenti in questo disco, e questa traccia non fa eccezione, non lanciandosi in sperimentazioni particolari e preferendo, piuttosto, consolidare una struttura già sentita. Anche Yia Fatu A Tierra segue lo stesso schema, anche se, bisogna dirlo, riesce a non risultare noioso, soprattutto grazie a un paio di riff davvero accattivanti e al delirio conclusivo. Nuovo viaggio nelle atmosfere bucoliche con Prameséu, uccellini e strumenti tradizionali sono la colonna portante di questo breve strumentale, solo una parentesi prima di Purtillu De La Llĩltá. Il lungo solo di chitarra funge da apripista per uno dei brani più propriamente folk metal dell’intera produzione, in pieno stile In Extremo. Non stupitevi, quindi, se dalle casse del vostro impianto fuoriescono chitarre distorte e cornamuse, growl e fiati; l’amalgama non è affatto male e dimostra che, se vogliono, i due spagnoli riescono anche a uscire dal seminato. Continuiamo con un’altra traccia dal titolo di difficile lettura: Llibación Nu Alborecer. L’oscura litania che funge da introduzione alterna blasfemie a elenchi di pratiche arcane e occulte, in un brano bipolare, che spazia da momenti letargici a eccessi di vigore, dando vita a una disturbante (ma interessante) dicotomia musicale. Terzo brano squisitamente folk, Xota Chaconeada si fonda su melodie dal sapore arabeggiante, figlie di una tradizione musicale di un paese che per secoli ha vissuto a cavallo tra due culture. Ci avviamo ormai all’epilogo quando erompe Miróbriga, tanto brutale quanto classica nella sua esecuzione. Poco male, il pezzo si lascia ascoltare pur non portando alcun vento di novità al suo interno. A chiudere il disco, la sognante Favéu De Sueños, morbido esercizio di tastiera che, con le sue atmosfere delicate, cala lentamente il sipario su quanto ascoltato finora.

Finisce così Yía De Nuesu. Che dire ancora? Leggendo la recensione, dovreste esservi già fatti un’idea dei punti di forza e di debolezza di quest’album, ma cercherò di sintetizzarli nuovamente per voi. Per quanto riguarda gli aspetti positivi, ci troviamo di fronte a un album ben realizzato, sia dal punto di vista della tecnica, sia per quanto riguarda la produzione. I LLVME si prodigano con costanza e trasmettono notevole energia. Il problema maggiore, in effetti, è proprio la loro costanza; le soluzioni stilistiche adottate sono fin troppo ricorrenti e rischiano di appiattire eccessivamente l’intera esperienza di ascolto. Intendiamoci, il disco non diventa mai noioso, ma fin troppo spesso si ha la sensazione di saper già come andrà a finire un passaggio o di poter anticipare la strofa seguente. Peccato, perché ci sono delle buone idee che attendono solo di essere sviluppate, magari dando più spazio agli ospiti e permettendo loro di contribuire maggiormente al quadro complessivo. Con queste premesse, il disco può sicuramente interessare gli appassionati di un metal cupo che non disdegna incursioni nel mondo del folk, sulla falsariga di Primal Fear o Negura Bunget, per capirci. Un eventuale terzo capitolo della discografia del duetto spagnolo ci permetterà di valutarne a pieno le potenzialità.

Damiano “kewlar” Fiamin

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Tracce:
1. 1188-1230
2. Helmántica
3. Vettonia
4. Vaqueirada’l Baitse
5. Cenceyu
6. Yia Fatu A Tierra
7. Prameséu
8. Purtillu De La Llĩltá
9. Llibación Nu Alborecer
10. Xota Chaconeada
11. Miróbriga
12. Favéu De Sueños

Formazione
Eric Montejo – Voce
Nandu S. Prieto  – Chitarra, basso, tastiera, cornamusa, hurdy-gurdy, batteria, percussioni

Ospiti
Marco Aurelio – Violino
Ana Sanabria – Voce
Marisa – Voce
Alba – Voce
Gabe – Voce
David – percussioni