Recensione: Yngwie J. Malmsteen’s Rising Force

Di Ezekiel25-17 - 22 Ottobre 2002 - 0:00
Yngwie J. Malmsteen’s Rising Force
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Anno: 1984
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95

Possiamo dire che il chitarrismo ultra-pirotecnico nasce nel lontano 1984. Ho detto “ultra” pirotecnico perchè in quegli anni faceva già scalpore un certo chitarrista, tale Edward Van Halen, capostipite della chitarra tecnica e trascinante (e qui è il pirotecnico) ma l'”ultra” è stato aggiunto dai tre guitar-heroes degli ’80-’90, Joe Satriani, Steve Vai e Yngwie J. Malmsteen.
“Yngwie J. Malmsteen’s Rising Force” è l’incipit della chitarra micidiale, violenta e sputafiamme abbinato ad un arrangiamento classico-barocco o, per usare il termine coniato in seguito, metal neoclassico. Il chitarrista svedese, dopo aver militato negli Alcatrazz, se ne esce con questo disco a dir poco spettacolare; “Rising Force” è formalmente il nome di un gruppo fantoccio, Barrymore Barlom alla batteria, Jens Johansson alle tastiere e Jeff Scott Soto alla voce, sono appendici di Yngwie Johann Malmsteen, oltre che compositore di tutte le musiche e soprattutto esecutore di tutti i pezzi di chitarra elettrica, acustica, basso e “Taurus pedal”.
Fin dalle prime note si capisce come procedono questi 40 minuti di fuoco, Yngwie è ovunque, tace solo tra i glissati e nelle pause fra un assolo e l’altro; sotto, il ritmo di batteria è sempre lo stesso, di voce niente ancora; resta solo una melodia a fare da falda acquifera, strana associata alla chitarra elettrica, un pezzo tendente al classico, di nettissima influenza made in Bach. Pezzi acustici lenti si alternano a centinaia di crome e semicrome, trentaduesime e sessantaquattresime, in una scalata e ridiscesa del manico della fantastica Fender Stratocaster a cui Yngwie dedica la copertina (purtroppo pompatissima e orrenda) del disco. E se la prima “Black Star” lascia sorpresi per i fregi e le pennellate di virtuosismo, la seconda traccia, “Far Beyond the Sun” è assolutamente micidiale: quasi sei minuti di saliscendi, stavolta più cattivi e taglienti, lasciano spazio solo alla tastiera per alcune battute e poi riprendono, chilometri di pentagramma si stagliano alle nostre orecchie, Yngwie è a dir poco sorprendente, e poi cambi, continui cambi e riprese danno un ritmo irrefrenabile, mozzafiato; il finale in crescendo termina con un insolito mi minore, stonato rispetto al resto ma che permette di riprendere ossigeno, pronti ad immergersi dopo due interminabili secondi nella perla successiva, “Now Your Ships are Burning”. Finalmente si sente Scott, ma il testo (tralaltro abbastanza pacchiano) poco aggiunge, semmai è solo di riempimento; di nuovo atmosfere, di nuovo velocità, è un crescendo a spirale, ma non stufa, cavalcante passaggio strumentale alternato a un passaggio vocale. Nuova traccia, che accade? Intro acustico e Yngwie sperimenta, si sfida, lotta contro se stesso: “Evil Eye” vede contrapposti Malmsteen acustico e Malmsteen elettrico; la sfida è titanica, tanto aggredisce l’acustico, tanto risponde l’elettrico, di nuovo ultra-velocità, barocco e classico vero e proprio sussurrato dal sintetizzatore ma reso estremamente bene. Già qui il disco è epico, una perla, sul bordo del pacchiano ma mai oltre, sentito forse. Ultime quattro tracce, “Icarus’ Dream Suite Op.4” è l’apice. Qui musica classica e chitarra elettrica si mescolano. Mare. Ecco cosa vedo, mare. Naufraghi di echi di chitarre che sembrano arpe, fiati che ricordano la lontananza, la distanza del sogno e la sua irrealizzabilità, Malmsteen emerge, ispirato, quasi dolce oserei dire, sempre quintalate di chiodi giù per le scale, note a non finire, saliscendi per tutti i 21 tasti della chitarra e poi acustica, melodie, sussurri, sembra un tema di Fantasia ma l’autore non è Stravinsky, è un guitar-hero. Otto minuti e trenta. Poi il brusco risveglio; organo. Come la “Toccata e Fuga” di Bach, il Principe degli strumenti introduce in modo (quasi) sublime ma la chitarra irrompe. “As Above, So Below” è una caduta di tono; la chitarra stavolta spezza la magia e la voce pensa bene di sputarci sopra. Yngwie fa del suo meglio a metterci su una pezza, ci riesce in parte e salva il salvabile. Approdiamo sull’isola di “Little Savage” e ritorniamo alle bordate di “Far Beyond the Sun”, torna il massiccio suono dei DiMarzio, poi muta, il sogno fa capolino, Yngwie lo allude intorno al secondo minuto, ed è il tramonto; il disco volge al termine su sprazzi di arpicordo e poi di nuovo di incisivo chitarrismo. Chiusura in bellezza, accordi, note sparse, echi e fate morgane vanno in sfumando fino a sparire del tutto; il laser del lettore, ronzando, torna al suo posto.
Ho parlato tanto, è vero, ho detto tante parole inutili, sicuramente non sono riuscito a rendere del tutto la bellezza nonchè complessità di questo disco. Resta il voto, piccola formalità, visto che su tutto il disco solo la VI traccia mi ha lasciato deluso, doveva a mio avviso sembrare un ponte fra calma e apocalisse, è venuto un po’ un aborto ma guardando attentamente tutti i punti di questo disco non può essere una svista, dev’essere per forza volontario, e posso permettere a Yngwie questo tranello. Che dire?

Tracklist:
1) Black star
02) Far beyond the sun
03) Now your ships are burned
04) Evil eye
05) Icarus’ dream suite op.4
06) As above, so below
07) Little savage
08) Farewell

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