Recensione: You’ll Never See…

Di Giuseppe Casafina - 20 Novembre 2014 - 17:36
You’ll Never See…
Band: Grave
Etichetta:
Genere: Death 
Anno: 1992
Nazione:
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85

Pianeta Terra, 1992 A.D.

Dalle fredde lande del Nord Europa, prima ancora dell’avvento in massa delle sonorità black metal, si erigeva imponente la crudezza assoluta del death metal svedese più puro e incontaminato. Quello con la ‘D’ maiuscola, quello fatto di riff semitonici sprizzanti il più puro aroma degli inferi e soli di chitarra atonali che suonavano come canti rituali di invocazione demoniaca. Quel suono pesantemente infarcito di carica hardcore e punk.

Ciò era l’inizio primordiale, poiché l’appellativo ‘death metal svedese’ sarà poi costituito da sonorità più melodiche, retaggio di altre band che, spesso indegnamente, rubarono scettro e corona di tale categoria. Dapprima infarcendo il death originario con massicce dosi di melodia, poi profanando definitivamente la sua purezza inserendo elementi del tutto estranei al genere stesso come cori catchy e clean vocals. Non è finita qua, giacché tali alterate sonorità hanno dato anche ispirazione, in tempi più recenti, ad altri abomini (il termine ‘metalcore’ vi dice nulla?) che, per quanto sperimentali e originali, hanno fatto dimenticare la ricetta primaria della miscela infernale… ma, per fortuna, c’è ancora gente che non ha dimenticato e per la quale dischi come questo stanno ancora lì, immobili nella loro imponenza, a ricordarci che il verbo musicale del Male ancestrale è scolpito tra i solchi di pietre miliari come il disco in esame.

“You’ll Never See…”, secondo platter del combo svedese Grave dopo lo storico esordio “Into The Grave”, è stato non solo una delle più clamorose rappresentazioni della più pura essenza death svedese, ma anche uno dei più riusciti dischi della band proprio per la crudezza della proposta in esso contenuta; proposta che d’altro canto, però, non ha saputo convincere del tutto le masse (infatti il disco non è mai stato particolarmente apprezzato dalla critica del settore) forse perché impreparate nel poter sopportare una cotanta carica di efferata e cruda violenza.

La verità su questo CD è ben altra: introdotto da una copertina malignamente death metal, il disco assale l’ascoltatore sin dalla sua prima nota con l’attacco lento come un macigno della title-track. Un attacco accompagnato da riff in palm-muting taglienti come lame che ci farà capire immediatamente quali saranno le note salienti dell’album che andremo ad ascoltare. Vale a dire una produzione ‘in your face’ senza abbellimenti, riff di chitarra assassini e growl da catacomba. Il suono delle chitarre è estremamente differente rispetto all’effetto grezzo in stile ‘grattugia’ che aveva reso memorabile il suono del disco di esordio. Qui abbiamo a che fare con una distorsione più corposa, secca e fredda dal vago effetto motosega, quel timbro che molti definiscono ‘zanzaroso’ ma che su questo lavoro ha un tono personalissimo (i primi ad aver creato il prototipo per questo timbro di chitarra furono gli svedesissimi Entombed su quel “Left Hand Path” uscito solo due anni prima), che poi da lì in poi molti hanno cercato per farne un loro standard. Senza tuttavia pagare il giusto tributo a maestri dimenticati come i Grave, per l’appunto, e tanta gente come loro che, proprio per questo, hanno abbandonato la lotta per la causa. Con la differenza che i Nostri sono ancora vivi e vegeti (tocca ferro, caro lettore…) e belli che suonanti, tra album in studio ed esibizioni dal vivo in giro per il Mondo.

Tornando al brano, l’assalto rallentato passa ad alternarsi a tempi di batteria ora di stampo chiaramente hardcore/D-Beat, ora più decisi mid-tempo e rallentamenti mozzafiato. Il pezzo, dopo poco tempo, ci regala una manciata di momenti da Storia del death metal: rallentamento improvviso in doppia cassa e riff principale decelerato bello in evidenza, il quale dopo nemmeno trenta secondi lascia spazio a un inserto strumentale di stampo puramente doom.

La discesa verso gli antri infernali prosegue attraverso una parte atmosferica abbellita ora da voci umane urlanti, ora da proclami demoniaci, e il tutto conduce verso un tripudio di assoli di chitarra che puzzano di zolfo e ululano vendetta. Lasciando quindi spazio alle sfuriate finali del pezzo, come sempre ora più lente e prossime al doom, ora più vicine all’hardcore (o thrash, a seconda dei gusti).

Il tutto, scritto così, sembrerà un pochino scolastico e asettico, ma se non avete ancora provato l’ebbrezza di quel che ho appena descritto andateci piano nel giudicare, perché nel 1992 queste soluzioni bramavano freschezza e autenticità. Al contrario della maggior parte delle iper-produzioni clonate dei nostri tempi che, insignificanti, macchiano con tono di blasfemia la purezza originaria di un tempo.

Inutile quindi descrivervi le tracce che verranno, visto che una descrizione traccia per traccia rovinerebbe di molto la magia (rigorosamente nera) di quel che potreste ascoltare, ma compio un’eccezione per la conclusiva “Christi(ns)anity”, poiché questo pezzo, oltre a vantare la ritmica vocale più trascinante dell’opera, è frutto di una fusione perfetta tra riff di chitarra e parti di voce (vi assicuro che sarà molto facile ritrovarsi in un headbanging sfrenato durante l’ascolto senza rendersene conto) e un finale ad alta tensione con l’uso di un suono di synth molto cinematografici, spesso usato dalla band ancora oggi come brano di chiusura dei propri concerti. Così, giusto per farvi capire l’importanza storica del pezzo ma poi che altro dirvi?

Se vi definite deathster ma non avete mai ascoltato una sola nota prodotta da questi puristi del death metal svedese originario, direi che potreste anche smetterla di definirvi come tali, almeno fin quando non avrete colmato questa pesante lacuna. Perché ogni singolo aspetto di “You’ll Never See” ribadisce solo una cosa: questo disco è l’essenza stessa del death metal. Questa potrebbe essere la conclusione perfetta. Questa è Storia.

Giuseppe “Maelstrom” Casafina

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