Recensione: Youthanasia

Di Filippo Benedetto - 22 Settembre 2003 - 0:00
Youthanasia
Band: Megadeth
Etichetta:
Genere:
Anno: 1994
Nazione:
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65

I Megadeth sono stati, piaccia o meno la cosa, uno dei gruppi punta di uno speed-thrash particolare, sui generis direi, thrash che di disco in disco era sempre più elegante e tecnico, nella proposta compositiva e strumentale. Un esempio perfettamente calzante in proposito lo si ebbe con il loro fortunatissimo masterpiece “Rust in Peace”, un disco nel quale tutte le qualità singole degli strumentisti riuscirono ad essere meravigliosamente incanalate fra di loro. Il successivo album, “Countdown to extintion”, anch’esso conosciutissimo dai metaller di mezzo mondo, non fece altro che aumentare da una parte la platea di fans del combo americano e dall’altra consolidare il sodalizio tra i membri di una band finalmente in pianta stabile.

Dopo due dischi di successo, e altrettanti tour in giro per il mondo carichi di riconoscimenti in sede live, eccoci arrivati al 1994. Questa data, a parere del sottoscritto, segna una sorta di spartiacque tra il passato della band e quello che poi essa diventerà… con grossa riprovazione della maggioranza dei metallers sparsi per il mondo. “Youthanasia” in fondo può essere considerato il primo, timido inizio di un processo di mutazione del gruppo nel modo di concepire il suo approccio con il metal e il music business.

Cominciamo dalla copertina: molto ben disegnata, evocativa, ritraente una anziana donna mentre appende a testa in giù un infinito numero di neonati lungo un chilometrico stendi panni, sotto un cielo minacciosamente coperto di nuvole gonfie di pioggia. La copertina, in sé, promette bene e fa ben sperare sul contenuto musicale del disco. Si comincia con “Reckoning Day”, un pezzo con un riff iniziale minaccioso, cupo, e con una ritmica delle più tipiche dei Megadeth. Lo sviluppo della track è molto “progressivo”, i riff sono ben inquadrati con basso e batteria e la voce non eccede su tonalità alte. Ben costruita la parte più cadenzata del brano, anche se poi lascia di nuovo spazio alla sonorità iniziale, che forse viene ripetuta un po’ troppo spesso. Nel complesso però la sensazione è buona e il pezzo scorre piacevolmente. La seguente track, “Train of Consequences”, tra l’altro singolo del disco, ha un inizio molto semplice, poche, rapide e secche pennate di plettro che a poco a poco lasciano intervenire prima la batteria e poi ancora il resto degli strumenti. Il ritmo è ben calibrato in questa prima parte del pezzo e il ritornello entra subito in testa. L’assolo è ben costruito, ma è un naturale momento di bravura di Friedman. Eppure, nonostante tutti questi pregi, la track nel suo complesso ancora non stupisce… non ci sono per esempio cambi di tempo che facciano drizzare l’orecchio dell’ascoltatore lasciando, nonostante l’effettiva bravura degli strumentisti, un po’ l’amaro in bocca.

Un intro di batteria ci inizia all’ascolto del seguente brano, “Addicted to chaos”, e da qui in poi si spiega meglio e più nel dettaglio musicale in cosa consiste il “cambio di pelle” a cui prima avevo accennato. Il brano è una sorta di mid-tempo con un riff molto cadenzato e giocato quasi interamente sulle stesse note. La ripetività del ritornello, anche se molto orecchiabile, alla lunga è stancante e il fatto che le ritmiche non si discostino molto dallo standard del classico mid-tempo non ne rendono più apprezzabile l’ascolto. “A tout le monde” è il pezzo più “easy listening” di tutto l’album, con un ben costruito arpeggio semiacustico seguito da un riff portante al limite dell’”hard-rock”. Il refrain, cantato in francese, ti entra subito in testa e traducendone il contenuto sembra quasi profetico per le sorti della band (che di lì a pochi anni entrerà in crisi per poi sciogliersi). Però, anche qui, nonostante la perfetta esecuzione, l’ottimo arrangiamento e il bell’assolo, si insinua il dubbio che la band abbia effettivamente deciso di staccarsi dalla sua matrice thrash-speed per spostarsi su lidi musicali più meanstream e comunque più “easy listening”. Passando ad “Elysian Fields” ci troviamo di fronte ad un altro standard del disco, stessa ritmica cadenzata, tutto ben suonato anche se il pezzo, come prima, non suscita grandi sorprese e i coretti che ogni tanto precedono il ritornello risultano troppo “roboanti”. L’assenza di un assolo non spezza la monotonia di un ritornello ripetuto all’infinito. “Killing Road” ha un bel riff di apertura che lungo tutta la durata del brano risulterà quello portante. Anche qui lo standard prevale sulla novità, per quanto il solo di Friedman riesca ad elevare il tono della track donandole più godibilità e scorrevolezza. Anche qui il ritornello la fa da padrone, seppur in maniera meno preponderante che nei brani precedenti.

Un riff cadenzato e pesante ci introduce a “Blood of Heroes”, e qui la certezza di trovarci di fronte un’altra band si fa ancora più evidente. Via ogni riferimento, anche il più vago, alla matrice speed-thrash della band e largo spazio ad un ritornello che quasi sembra “pop” sia nell’impostazione vocale che dal punto di vista strumentale. “Family Tree” è l’ennesima conferma del dirottamento della band, anche se in questo caso è ancora possibile intravedere qua e là piccoli spunti della band che fu, dubbi subito fugati all’ascolto del ritornello anche stavolta “semi-poppeggiante”. Con la title track , “Youthanasia”, ritroviamo finalmente traccie più visibili dei Megadeth dei gloriosi anni: riffs pesanti e più heavy, voce graffiante e finalmente qualche cambio di tempo. Molto ben eseguita la parte centrale della song, in cui il riff si fa più veloce e introduce ad un assolo molto bello. La terzultima traccia, “I Thought i Knew it all”, fa tornare però alle precedenti atmosfere, ovvero molto leggere. Stesso ritornello molto orecchiabile e ripetuto all’infinito, stessa voce ben impostata, una piattezza interrotta solo da un leggero cambio di tempo nel quale si inserisce l’assolo che snellisce il brano e non lo fa cadere nella monotonia. “Black Curtains”, mid-tempo costruito su pochi ma qualificanti riffs, rimanda vagamente, di nuovo, al passato del quartetto, tuttavia non facendo allontanare i dubbi e i sospetti sulla reale convinzione di Mustaine e soci di volerli ancora, questi “frangenti heavy”. “Youthanasia” si chiude con “Victory” forse l’unica traccia veramente interessante dell’intero disco, che potrebbe essere definito la summa del Megadeth sound con in più autocitazioni nelle liriche tratte da famose canzoni scritte dalla band, e perfino con un “omaggio” al riff di chiusura di un pezzo famoso dei Diamond Head (trattasi di “The Prince”).

In sostanza possiamo dire che, con questo “Youthanasia”, sembra che i Megadeth abbiano abbandonato pure loro la “retta via”, per imbarcarsi in un sentiero di profonda crisi musicale, che li porterà in futuro allo scioglimento.

Filippo “Oldmaidenfan73” Benedetto

Trackilist:
1. Reckoning Day
2. Train Of Consequences
3. Addicted To Chaos
4. A Tout Le Monde
5. Elysian Fields
6. The Killing Road
7. Blood Of Heroes
8. Family Tree
9. Youthanasia
10. I Thought I Knew It All
11. Black Curtains
12. Victory

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