Recensione libro: The Mission, il bacio del serpente

THE MISSION
IL BACIO DEL SERPENTE
di Alex Daniele
408 pagine
Formato: 16×23
ISBN: 978-88-94859-92-8
25 €
Siamo da qualche parte tra Led Zeppelin, U2 e The Cure, ma forse non siamo più nemmeno lì. Non so dove ci collocherei ora. Ma penso che siamo un tesoro nazionale, siamo piuttosto unici fra le band britanniche.
Questa l’auto definizione degli inglesi The Mission, identificati negli Stati Uniti come The Mission UK per motivi legali, una band che non ha mai affermato di aver inventato nulla, che molto raramente si è ripetuta e che spesso ha avuto il coraggio di scommettere sul proprio futuro con album che non sempre erano quelli che il pubblico desiderava. Un gruppo rock che negli anni Ottanta è stato fra i nomi di culto del genere gothic e poi, tra cambi di identità e di musicisti, eccessi, incomprensioni e qualche passo falso è riuscito, non senza farsi del male, ad arrivare sino ai giorni nostri.
I Mish, come confidenzialmente venivano menzionati, i Led Zeppelin gothic per qualcun altro, una compagine che per lo scriba oltre che posta fra i tre giganti menzionati a inizio recensione ha saputo talvolta incunearsi in quell’anfratto rimasto libero fra The Doors e Pink Floyd, per moltissimi altri inaccessibile.
Il loro motto era e probabilmente è ancora “mantenere la fede”, concetto base condiviso da sempre anche fra gli amanti del Metallo fatto musica. Che non vuol dire per forza rimanere ancorati al passato ma semplicemente non “sbragare”, per utilizzare una terminologia ormai vetusta ma sempre ficcante, quando la leva militare era ancora obbligatoria, nel nostro Paese.
Dietro ai The Mission il cantante e chitarrista Wayne Hussey e il bassista Craig Adams che, a metà anni Ottanta, dopo la fine della loro avventura con i The Sisters of Mercy, altri riconosciuti mammasantissima di quel filone musicale, fondarono la band.
Già, Wayne Hussey… uno che nel giugno del 1985 si è “tirato piatto” in una nottata di bagordi fra alcool e droghe varie in compagnia di altri due fuoriclasse degli eccessi di quel periodo quali Lemmy Kilmister dei Motörhead e Ian Astbury dei Cult per poi esibirsi In un concerto che ha fatto epoca alla Royal Albert Hall di Londra, il giorno successivo, quando militava nei The Sister of Mercy, molto probabilmente con ancora addosso le scorie di un pesante hangover.
Per gli scettici in servizio permanente effettivo, che si ascoltino la cover dei Mish di “1969” degli Stooges per capire quanto ci sappia fare con la chitarra uno che non ha nulla da invidiare ad altri funamboli dell’heavy metal come Hussey…
Quanto sopra, integrato opportunamente per l’occasione, è il succo dell’incipit allestito da Alex Daniele, autore di The Mission, il bacio del serpente, uno degli ultimi parti letterari della Tsunami Edizioni, 408 pagine in formato 16×23 cm contenenti al proprio interno una selezione fotografica proveniente dalla sua collezione personale e dall’archivio privato del gruppo. Nel 2014, sempre a suo nome, è infatti uscita, solamente in lingua madre, la biografia autorizzata della band. La versione aggiornata 2025, oltre ad essere stata ovviamente pubblicata in UK sempre in inglese è appunto questa, oggetto della recensione, quindi disponibile per la prima volta nell’idioma nazionale. Intrigante la strana croce che i Mission hanno adottato come proprio simbolo in sottofondo a tutte le pagine, dalla tonalità grigiastra.
Poter contare, come in questo caso, dell’apporto del protagonista principale, nel momento in cui si scrive un libro non ha eguali, in termini di effetto e resa finale. Soprattutto se, sebbene con il sorriso sulle labbra, ci si vuole raccontare e mettere in discussione, svelando quanto fino a poco tempo prima si teneva gelosamente nascosto. Debolezze, meschinità, cattiverie gratuite, figure di emme e via di questo passo.
The Mission, il bacio del serpente, in questo senso, non delude affatto le aspettative: il leader dei The Mission, insieme con quel nutrito cast di personaggi che nel corso del tempo ha gravitato intorno al gruppo, come compagni di band, collaboratori, produttori, manager, roadie ed esperti appassionati interrogati da Daniele vuota letteralmente il sacco.
Quindi spazio all’esordio su di un palco con esito semplicemente pietoso, sbornie colossali, droga, risse, piattole diffuse, scazzi con altre band per l’attribuzione del nome, le immancabili accuse di satanismo, i vinili confezionati nella custodia di un’altra band, tazze del cesso fatte volare fuori dalle finestre degli hotel, l’empatia sviluppata con gli Hell’s Angels, balle colossali, scherzi gratuiti, abbandoni e riconciliazioni.
Arriva il successo vero e ce lo si gode appieno, seguito però poi da ampie ricadute, le luci della ribalta si offuscano e di botto finiscono i tempi della presentazione di “Butterfly on a Wheel” sul palco di Sanremo e si suona al Bloom di Mezzago – locale mitico, s’intende, ma non di certo il Madison Square Garden in termini di grandezza – senza nemmeno strappare il sold out. Ma non si molla, in ossequio al motto di una band che ha aperto alcuni dei suoi concerti con la cover di “Orion” dei Metallica.
Vale le pena riportare pari pari un concetto magistralmente espresso fra pagina 121 e la successiva, nel libro, a mo’ di lezione per tutte quelle band che una volta raggiunte le copertine patinate si “dimenticano” di chi ha permesso loro di arrivare sin lì, al di là di qualsiasi steccato di genere proposto:
“È la gente che fa la chiesa!”, ha detto una volta Wayne. Il rispetto che la band di Leeds ha nei confronti di chi li ha supportati sin dal giorno zero è un aspetto della musica rock sul quale – e gli esempi sono innumerevoli – molti altri artisti pontificano onde poi rifiutarsi anche di rilasciare un semplice autografo. “Dobbiamo tutto ai nostri fan, senza di loro oggi noi non saremmo ancora qui a suonare; totale rispetto!”. Quante sono le band che per anni se ne andranno in giro a dire stronzate del genere per poi chiederti cento euro per stringere loro la mano o, addirittura, voltarsi dall’altra parte se gli chiedi di firmarti un fogliettino di carta per strada? No, in questo i Mission sono sinceri e lo saranno sempre.
Di fatto, prima di consegnarsi alle grandi arene che li attendono per la fine dell’anno, i Mission regalano ai propri fedeli cinque concerti, più o meno segreti e riservati esclusivamente ai membri del fan club, in alcuni piccolissimi club britannici. I quattro abbandonano per un istante il bello e il brutto di viaggiare su un tour bus, risalgono su un piccolo furgone, dormono in un bed & breakfast tra una data e l’altra, si pagano i propri drink in locali dove sono consapevoli che il cachet della serata sarà inferiore ai soldi che spenderanno al bar…
The Mission, il bacio del serpente: una modalità fresca per poter assaporare, a livello cartaceo, quel suono nato fra le macerie del Punk negli anni Ottanta, una volta tanto slegato dalla capitale Londra, che ha preso forma tra Bristol, Liverpool e Leeds e ancora oggi è in grado di mietere alcune vittime. Musicalmente, s’intende…
Curiosità: l’album di esordio dei The Mission, God’s Own Medicine, del 1986, fu registrato nello stesso studio, il Ridge Farm, utilizzato dai Vanadium per Born to Fight, nel medesimo anno. Il batterista, Mick Brown, era omonimo del batterista dei Dokken. Solo un caso che il drummer dei Mish fosse un metallarissimo, a livello di ascolti?
Refusi a zero, a rimarcare la qualità media dei prodotti Tsunami Edizioni.
I Mission non erano per noi solo una band, erano il nostro grido di battaglia, la nostra ragione per ritardare quel passo verso l’età adulta e tutto ciò che ne consegue
Stoko “The Eskimo” – uno dei die hard fan dei Mission
Stefano “Steven Rich” Ricetti
