Live Report: Progressive Nation Tour a Casalecchio di Reno (BO)

Di Riccardo Angelini - 3 Novembre 2009 - 13:25
Live Report: Progressive Nation Tour a Casalecchio di Reno (BO)

Prefazione di Riccardo Angelini, fotografie di Daniele Peluso.

Futurshow Station, Casalecchio di Reno, ore 23:30. Quando l’ultima nota di The Count Of Tuscany sfuma lenta nell’aria, mentre qualcuno s’affretta ad asciugare una lacrima fugace e la mente abbandona poco a poco il sogno per tornare alla realtà, il sentimento che unisce tremila anime è il medesimo: si è conclusa una serata magica. Quattro ore di musica pressoché perfette, un continuo crescendo che ha mandato a casa tutti con un bel sorrisone stampato sulla faccia. Un esito felice al di là di ogni previsione, perché se è vero che i nomi in causa erano di per sé garanzia di qualità, è anche vero che la tournée era quasi agli sgoccioli, e vedeva quattro band provate da una lunga maratona europea – nel caso degli headliner preceduta da una ulteriore maratona statunitense. E invece tutto è andato magnificamente, fin dall’inizio. Un bill quantomai eterogeneo – non solo progressive ma anche avantgarde, metal estremo e rock classico – ha lasciato tutti di stucco, con quattro band che meriterebbero ciascuna un tour da headliner nel nostro paese. Non sono mancate le sorprese: chi non li conosceva è rimasto stupito dall’istrionismo dei folli Unexpect e del carisma alcolico dei Bigelf (vintage rock allo stato puro). Gli Opeth si sono nuovamente imposti grazie allo charme ineffabile di Mr. Åkerfeldt mentre i Dream Theater hanno dominato con una prestazione corale da paura. L’unica tirata d’orecchi va rivolta al pubblico bolognese – non certo ai tremila appassionati che hanno risposto puntualmente all’appello – ma a quelli che per pigrizia o scetticismo sono rimasti a casa, privandosi di un’esperienza memorabile, che faranno bene a rimpiangere a lungo.


A cura di Angelo D’Acunto.

Ore 18:45 in punto. Ad inaugurare la calata bolognese del Progressive Nation 2009 ci pensano gli Unexpect. I suoni, inizialmente confusi all’inverosimile, non garantiscono la resa sonora ottimale di una proposta musicale già intricata di suo, dove a farne le spese sono principalmente le due chitarre e il violino di Blaise. Comunque la band canadese non demorde e cerca di impegnarsi in tutti i modi per coinvolgere il numeroso pubblico radunatosi nei pressi del palco, riuscendoci alla perfezione, grazie soprattutto ad un’ottima presenza scenica (la bella Leïlindel su tutti) e ad una esecuzione pressocchè perfetta. Pochi, pochissimi sono i minuti a disposizione per i sette musicisti di Montreal, che riescono a scaldare come si deve l’ambiente fra accelerazioni più furiose, interrotte frequentemente da eleganti stacchi di stampo jazz, proponendo brani più che altro estratti dall’ultimo full-length, “In A Flesh Aquarium” (uscito nel 2006), come la conclusiva e acclamatissima “Desert Urbania” che mette fine a mezz’ora scarsa di show adrenalinico, penalizzato solamente da suoni ancora in via di definizione (destino di tutti gli opening act, purtroppo).

 

 

 


A cura di Angelo D’Acunto.

Cambia la musica (in tutti i sensi) quando arriva l’ora dei Bigelf: i suoni migliorano decisamente, e la proposta musicale devia verso un suono nettamente settantiano. Luci spente, l’Imperial March di Star Wars piazzata come intro, e si inizia con lo spettacolo del combo californiano fatto di distorsioni puramente seventies ed escursioni di synth a metà strada fra Keith Emerson e gli Hawkwind degli anni d’oro. La resa dal vivo dei pezzi è decisamente perfetta e coinvolgente, grazie anche all’ottima presenza scenica di un Damon Fox che dialoga spesso con il pubblico (anche con battute spassose) e sempre bravo a destreggiarsi fra microfono e tastiere piazzate al centro del palco (sulle quali si nota la presenza del Maestro Yoda in miniatura). I pezzi della scaletta sono estratti principalmente dall’ultimo “Cheat The Gallows”, come la coinvolgente “The Evils Of Rock ‘N’ Roll” piazzata in apertura, oppure una “Blackball” che dal vivo rende ancora più rispetto alla versione su disco. Lo show prosegue con “Da Bats In The Belfry I” (dal precedente “Hex”), seguita a ruota dalla sognante “Money, It’s Pure Evil”, fino a arrivare alla conclusione con “Money Machine”, condita anche dal lancio di soldi (finti, a quanto pare) sul pubblico.

 

 


A cura di Roberto Cavicchi.

I Bigelf hanno da poco finito di suonare e sotto al palco della Future Show Station inizia ad assieparsi un pubblico discretamente numeroso in attesa dell’esibizione degli svedesi. Gli Opeth entrano in scena, tra la felicità degli astanti, sulle malinconiche note di Windowpane, dal capolavoro Damnation, che riesce ad emozionare tutti i presenti prima di colpirli in pieno volto con la potenza di The Lotus Eater. La prestazione è di prim’ ordine, complici anche i suoni veramente buoni, mentre tra un brano e l’altro la simpatia di Mikael Akerfeldt strappa più di una risata, instaurando così un clima di complicità con i fan: impossibile resistere sentendolo recitare il discorso introduttivo di The Number of The Beast, o dichiarare di aver scritto personalmente tutti i pezzi dei Dream Theater ed aver insegnato a John Petrucci a suonare Smoke on The Water. Ma è la musica quella che conta, e gli Opeth la servono con generosità, proponendoci pezzi come Reverie/Harlequin Forest e The Leper Affinity, ma (almeno per il sottoscritto) è con una magistrale Deliverance che si tocca l’apice del concerto, veramente perfetta. Purtroppo l’ora a disposizione è quasi terminata ed è rimasto tempo per un solo pezzo, Hex Omega, degna conclusione di un concerto la cui unica pecca è la breve durata dovuta alla posizione di gruppo-spalla. Attendiamo è il loro ritorno in veste da headliner.

 

Setlist:
Windowpane
The Lotus Eater
Reverie/Harlequin Forest
The Leper Affinity
Deliverance
Hex Omega

 


A cura di Riccardo Angelini.

Il concerto dei Dream Theater ha dimostrato due cose. Primo, che la band – tutta quanta – è in uno stato di forma magico, e se le sue ultime prestazioni su disco hanno prodotto sentenze contrastanti, dal vivo non ce n’è per nessuno. Secondo, e forse più importante, che quando ti chiami Dream Theater non hai bisogno di appoggiarti per forza ai classici per scardinare le ritrosie degli scettici e sciogliere il cuore degli appassionati. Quella che sulla carta potrebbe essere giudicata come una scaletta deludente si è rivelata infatti una setlist impeccabile, perfettamente bilanciata e capace di emozionare in ogni sua parte, pur lasciando completamente fuori due rooster di pesi massimi come ‘Images And Words’ e ‘Scenes From A Memory’. La preparazione è lunga: ci sono tre grossi maxischermi da issare e un ulteriore set di luci da predisporre. Petrucci ne approfitta per scaldarsi le dita con un’inedita versione unplugged di ‘As I Am’ cantata (presumibilmente) dall’eterea Leïlindel. Il pubblico ascolta rapito e ricambia con uno scroscio di applausi – meritatissimi. Poco dopo, l’intro di pianoforte di ‘A Nightmare To Remember’ apre le ostilità con una nota oscura. Il rombo delle chitarre strappa via il sipario e James conquista tracotante il centro del palco. Se in passato non tutte le sue prestazioni erano state all’altezza, stavolta il timbro suona caldo e sicuro, perfettamente controllato sui bassi e disinvolto quando la tonalità si alza.

 

Ma rispetto all’ultima calata bolognese è tutta la band a riscattarsi, tant’è vero che il buon Myung, talvolta vittima del complesso da bella statuine, osa persino prodursi in un timidissimo accenno di headbanging. Il brano viaggia spedito e coinvolgente come da copione, con l’unica variazione dell’intervento vocale semi-parlato di Portnoy, trasformato in un growl rabbioso e tecnicamente ineccepiblie (il maestro Åkerfeldt deve avergli insegnato bene). A seguire ‘A Rite Of Passage’ si conferma omicida dal vivo, con quel ritornello corale e avvolgente che non fa prigionieri. Durante il tour la band ha cambiato spesso scaletta: la curiosità di scoprire quali conigli saranno tratti dal cilindro nella data bolognese inizia a trovare soddisfazione con la ballatona ‘Hollow Years’, in cui ancora una volta spicca l’interpretazione magica di Labrie. Che di lì a breve si prenderà una lunga pausa. Dopo soli tre brani è passata infatti una buona mezz’oretta, ed è giunto il momento atteso e temuto dell’assolo Jordan Rudess. Tastiere, continuum e i-Phone – sì, avete letto bene: i-Phone – nel suo repertorio, in un vorticoso excursus a cavallo fra audace improvvisazione e autoerotismo musicale. Si sfiora anche l’incidente diplomatico quando, nel bel mezzo di un vertiginoso mulinello di note, la vecchia volpe di Jordan intona il motivo di ‘Romagna Mia’ (qualcuno gli avrà spiegato che Bologna è in Emilia?) – ma il pubblico felsineo non può non apprezzare e sportivamente intona a gran voce il testo del valzer popolare firmato Casadei.

 

Poi entra Petrucci e si ricomincia a parlare di progressive. Allo stato puro: erano anni che non sentivamo ‘Erotomania’ tutta per intero, ed è forse la sorpresa più gradita della serata. Non mancano i siparietti tutti da ridere, con Portnoy che collassa a metà brano, si ripiglia, fa due smorfie in camera, si scaccola con le bacchette e finta un paio di ripartenze facendosi beffe dei compagni (al secondo giro la chitarra di Petrucci gli risponderà con un ironico “wah ah ah” di classica scuola Vai). Dopo la lunga assenza Labrie si riappropria del microfono, fresco come una rosa e pronto a destreggiarsi fra le spigolature impervie di una straordinaria ‘Voices’ – fra i migliori di ‘Awake’. Conclude la setlist una coinvolgente ‘In The Name Of God’ (meglio qui che su ‘Train Of Thought’), avvincente nel riff di chitarra ma soprattutto buona per far cantare tutto lo stadio sul melodicissimo refrain. Bis annunciato per i diciotto minuti di ‘The Count Of Tuscany’, che può tranquillamente essere considerata l’apice del concerto, almeno dal punto di vista emotivo. Il refrain, leggermente rimaneggiato, sposta qualche accetto ed estromette le backing vocals di Portnoy. Il cambiamento non è ottimo, ma passa del tutto in secondo piano quando le tastiere di Rudess liberano il sontuoso assolo psichedelico di Petrucci. Labrie canta col cuore e la sua voce diventa tutt’uno con la melodia struggente delle sei corde – nemmeno il più insulso dei testi può impedire all’anima di commuoversi di fronte alla semplice bellezza della musica. Ed eccoci tornati all’inizio: quando anche l’ultima nota sfuma, lasciando dietro di sé un silenzio attonito ed estasiato, una è la certezza di tutti i presenti. Il 29 ottobre a Bologna è stata una serata di grande Musica.

Tracklist:
A Nightmare To Remember
A Rite Of Passage
Hollow Years
Keyboard Solo
Erotomania
Voices
In The Name Of God

Encore:
The Count Of Tuscany