”10 ragioni per iniziare a suonare e 1000 per smettere” – Nona puntata
Puntuale, ecco il nono capitolo della rubrica. L’ottava parte è disponibile qui.
9 – It’s Live Time!
Inutile negarlo, donne a parte, il sogno di chi comincia a suonare in un gruppo è quello di esibirsi su un palco alto 15 metri, profondo 20, largo 200, in fronte a una marea umana in visibilio. Non serve nemmeno dire che questo non si avvererà MAI e poi MAI per il 99,999999% dei gruppi mondiali con un contratto discografico, figuriamoci per quei poveri disgraziati che cominciano adesso o hanno appena registrato un demo. Suonare dal vivo è croce e delizia dei più, un tasto dolentissimo che comunque va toccato, seppur col tatto richiesto dalla delicatezza dell’argomento. Vediamo alcune situazioni tipo:
Concerto di fine anno scolastico: Un pezzo a gruppo, settanta partecipanti, 5 ore di tortura per gli avventori, professori e genitori in platea, acustica vergognosa, sound check inesistente, commistione sfacciata dei più disparati generi musicali, accostamenti violenti tra una bella ragazzina che suona il piano da 11 anni con un gruppo formatosi per l’occasione incapace di azzeccare uno stacco. Da evitare.
Festa di compleanno: un amico o un’amica invitano altri amici col pallino della musica. Loro montano baracca e burattini in giardino o in salotto, suonano alla cazzo mentre nessuno se li incula. A volte il tutto degenera in una jam session deleteria per gli strumenti e soprattutto per la dignità dei partecipanti. Anche questo da evitare.
Supporto a gruppo affermato: l’immaginazione qui può farvi prendere il volo. Ci penserà poi il greve peso della cruda realtà a spiaccicarvi al suolo.
Scena immaginata: luci da circo, raggi laser che squarciano il buio disegnando fisionomie magnificenti, batteria sopraelevata, acustica perfetta dentro e fuori dal palco, pubblico delirante, orge nel backstage.
Cruda realtà: luci spente o quasi (al massimo 2 faretti bianchi fissi), batteria defilata e amplificata sì e no con tre microfoni, suoni immondi sul palco e imbarazzanti sulla sala, pubblico (quando c’è) totalmente disinteressato e talmente distante dal palco che vi verrà da chiedervi se stiate emanando un tanfo mefitico. Orge nel backstage? La risposta risiede in un’altra domanda: ma quale backstage?
Ovviamente la situazione sopra descritta può migliorare qualora il gruppo supporto abbia pian piano costruito la sua audience, ma non pare cosa facile.
Serata condivisa con gruppi dello stesso livello: ce ne sono di tutti i tipi, perché sono anche le più diffuse. Si va da quelle da ricordare, dove c’é gente e ci si diverte, a quelle da dimenticare anche a costo di dover ricorrere all’ipnosi e/o alla psicanalisi per la rimozione. Sono infatti suscettibili di prendere corpo dissidi e polemiche su:
– a chi tocca fare l’headliner
– orari di inizio concerto
– orari di chiusura concerto
– ordine sound check
– durata sound check
– durata relativa delle esibizioni
– occupazione del backstage.
Quest’ultima problematica si configura spesso come un vero calvario, soprattutto quando i batteristi percepiscono subito il camerino come “loro territorio”. E così troveremo ovunque pad, rullanti, metronomi, sgabelli e seggiolini, scarpe di ricambio, e i nostri testicoli verranno continuamente molestati dai rulli di riscaldamento. Si possono arrivare a concentrazioni da guinness stipando 5 gruppi (25 persone) in 15 metri quadri. Abominevole.
Ci sarebbero altre situazioni tipo, ma una in particolare merita un attento studio dei meccanismi che ne governano gli scellerati funzionamenti: stiamo parlando dei famigerati “concorsi per band emergenti”. Pare dunque d’obbligo dedicare a questi fenomeni economico-sociali un capitolo a parte.
© 2004 Daniele Galassi www.danielegalassi.com