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Consigli Non Richiesti di Giancarlo Trombetti (# 6)

Di Stefano Ricetti - 30 Marzo 2010 - 1:20
Consigli Non Richiesti di Giancarlo Trombetti (# 6)

Settimo – il primo era il numero “zero” – e nuovo appuntamento della rubrica a cadenza assolutamente NON REGOLARE riguardante i Consigli Non Richiesti di Giancarlo Trombetti.

Come al solito pregna di spunti interessanti, volti a far riflettere ma non solo. Costituirebbe davvero peccato mortale non farsi travolgere da questo fiume di parole, indipendentemente da come la si pensi a riguardo.
Buona lettura
Steven Rich       

Tre sere fa mi sono concesso una botta di vita. Con quattro amici sono uscito a mangiare un piatto di spaghetti alle arselle (in bianco, pomodorino fresco, alla viareggina…) ed una pizza. Non uscivo da un po’ di tempo, ma soprattutto non uscivo con gli altri quattro da… diciamo trent’anni. Meraviglie del web! Se ti iscrivi a Facebook, sei in condizione di rivedere e riparlare con ragazzi che hai frequentato venti, trent’anni fa e che abitano a dieci minuti di bicicletta dalla casa di famiglia. Così va la vita! Sono quindi uscito con Maurizio, Roberto, Mauro e Antonio; un paio di loro non li vedevo da quando mi trasferii a Roma definitivamente. Grosso modo metà anni Ottanta. Abbiamo parlato delle nostre vite, dei nostri sogni sfumati o realizzati, della famiglie che abbiamo messo su e perso o che avremmo voluto perdere, abbiamo parlato essenzialmente di musica, elemento comune e vera passione di ognuno di noi. Già, perché se uno di loro ha una sua piccola attività commerciale, uno ha aperto un birrificio, uno è ricercatore all’università ed un uno è compositore, quel che ci unì decenni fa e che ancora ci tiene uniti è una infinita passione per la “nostra” musica.

Così ho scoperto che Roberto ha fatto un viaggio a San Francisco in cerca dell’essenza della West Coast, che Mauro non ha mai abbandonato i suoi miti giovanili, che Maurizio continua a suonare la chitarra e che Antonio, che non ha mai scritto una canzone in vita sua, è compositore e direttore di orchestra. Sono tutti di poco più giovani di me, quei ragazzi, ma i sei anni che ci dividono oggi e che non si notano più, a mezza età, pesavano molto , in realtà, nei loro sedici anni, mi hanno spiegato. Ed una cosa, una frase, caduta lì, nel mezzo di mille altre, mi ha sorpreso e commosso, mi ha colpito : “Tu hai seminato, in quegli anni, e noi abbiamo tutti raccolto anche se tu non te ne sei neppure accorto!”. Era la metà degli anni Settanta e si giocava a fare radio; per molti è divenuta una attività redditizia, per me era una passione istintiva, l’occasione per parlare di musica insieme a quella di ascoltarmela a tutto volume, a microfoni chiusi, cosa che non avveniva sempre a casa, specialmente in ore serali. Erano altri tempi. Avevo vent’anni o poco più e non immaginavo certo che in quelle serate sarebbe nato quel tarlo che mi avrebbe portato a dimenticare le professioni serie e credere che si potesse vivere di musica senza saper suonare altro che il proprio impianto stereofonico. Parlavo di ciò che leggevo e credevo di sapere, ma soprattutto parlavo di quello che mi emozionava. E alcune cose erano ricorrenti e imprescindibili in quelle lunghissime serate in cui potevamo permetterci di chiudere quando lo decidevamo noi e non la pubblicità o il proprietario della radio. Davvero altri tempi!

Nella foto: Frank Zappa
Vi risparmio l’elenco che non faticherete a immaginare dei punti fermi musicali di ogni nostra puntata, ma se vi riferissi che il nome di quel programma radiofonico nascosto tra le nebbie del tempo, qualche vita fa, era “Freak Out”…vi direbbe niente?  Così, i cinque personaggi alle prese con il piatto di spaghetti avevano un comune denominatore, Frank Vincent Zappa, ed io ero nella parte di colui che, seminando le proprie fantasie era riuscito ad accenderne altre. Una sorta di passaggio delle consegne emozionante e piacevole. Ma la cosa che più mi ha colpito, in realtà, è stata sentire parlare Antonio. Antonio, il compositore, quello che va in Germania a far suonare i propri pezzi all’orchestra di Berlino, quello che ha scritto un brano che è stato suonato dall’Ensemble Modern, quello che conosce le note e le sa scrivere su uno spartito, quello che si è fatto comprare, un quarto di secolo fa a New York, un rarissimo spartito di Edgar Varèse solo perché aveva letto in un articolo che Zappa ne parlava benissimo. Ecco, in quei momenti, persino un talebano come me, uno che crede di sapere tutto di tutto del proprio idolo, di colui che non rappresenta più da tempo un icona rock ma una vera e propria religione, in quei momenti si è sentito trasformato in uno scolaretto che pende dalle labbra del maestro. E così ho ascoltato un musicista parlare estasiato della immensa difficoltà compositiva di brani in cui io ero solo riuscito a leggere la superficie emozionale, ho centellinato le spiegazioni tecniche delle strutture di pezzi ascoltati milioni di volte che, per una volta, mi sono parsi come mai uditi. Ho capito il perché della violenza di certe sensazioni di fronte a esecuzioni imparate a memoria ma mai del tutto tradotte per me dalla esperienza di un compositore. Le parole di Antonio mi hanno dato nuova voglia di riascoltare con nuove orecchie note memorizzate da secoli. Ed in quel momento ho capito quanto sia importante esplorare ogni faccia delle pietre preziose che ci teniamo in casa, spesso senza neppure riuscire fino in fondo a capire perché esse lo siano, lasciandosi solo trasportare dall’istinto nel giudicarle.
Certo, avevo avuto possibilità di parlare con molte stelle del rock e quando solo qualcuno lasciava intendere una simpatia per l’Uomo di Baltimora, mi dimenticavo dello scopo principale per cui me ne stavo lì e iniziavo a strappargli la sua personale impressione del Mito. E nello scoprire che Lui era sempre rigorosamente stimato e rispettato al limite della venerazione, tornavo a ritoccare terra, ricominciando a parlare di banalità rock and roll. Ricordo perfettamente che i due musicisti che mi regalarono perle di esperienze personali con Zappa, furono Steve Vai e Terry Bozzio. Ma qualsiasi valutazione mi è parsa, l’altra sera, superficiale, di fronte alle articolate considerazioni di un compositore estasiato.  E quando ho sentito dire che nei 23 secondi (!!!) di un brano di “Civilization Phase III” c’è essenza del genio zappiano, mi sono sentito un deficiente per non essermene mai accorto.
L’ultima volta che scrissi i miei “Consigli non richiesti” navigavamo nella terra della follia e se avessi scritto di Zappa all’indomani di quelle righe, vi avrei raccontato una storia diversa da quella che vorrei sapervi raccontare oggi. Perché di follia, almeno appena al di sotto del mare in tempesta delle emozioni dell’ascoltatore “normale”, in Frank Zappa ve ne è ben poca.  Zappa è il musicista ed il compositore che più ha stravolto i canoni del rock, mescolando ai noti ritmi rock and roll, il blues, la sperimentazione elettronica, le canzoncine anni ’50, il doo-wap, il reggae, il boogie, la musica orchestrale, il jazz, l’utilizzo del parlato come uno strumento, in un continuo mutare del punto di osservazione, ed accoppiando il tutto a testi contorti, scritti in un americano contaminato dall’italiano, mai di facile comprensione, violenti ed ironici, sarcastici e corrosivi, mai banali. Zappa ha dato vita a una musica tutta propria che non ha riferimenti, che non ha esempi, che non rassomiglia nulla, che non ha paragone né, ahimè, seguaci o artisti che ne possano perpetrare la linea.  A pochi mesi dalla morte – una morte molto semplice, molto poco rock, avvenuta per tumore alla prostata – raccontò a un amico comune che tutto sarebbe “…finito con la mia morte. Non c’è nulla che possa essere portato avanti, nessuno potrà raccogliere il testimone della mia produzione se non lo si è riusciti a farlo in tutti questi anni”. Ed aveva, amaramente, ragione.  Perché non basta essere in grado di eseguire le sue musiche, i suoi pezzi, o costruirne di simili.
E’ l’essenza di quello che lui ha sempre definito “project-object” , il progetto-oggetto, che manca. Viene a mancare la sua visione di quelle note, la sua antenna perennemente protesa verso il mondo e pronta a mutare tempi, metodi e strumenti di esecuzione. A Firenze,  nel 1988, nel backstage del concerto che sarebbe stato uno degli ultimi della sua carriera prima della scoperta della malattia, riuscii a mettermi a parlare con Bruce Fowler, storico jazzista, trombonista di una delle formazioni più amate di sempre, quella del 1974.  La formazione del 1988 era incredibile, dodici elementi, di una qualità tecnica e interpretativa spettacolare, così spettacolare che, quando si sciolsero per i problemi di salute ma anche e soprattutto per problemi di rapporti interpersonali, il disco che Zappa pubblicò, ebbe il nome di “The best band you never heard in your life”…il miglior gruppo che non abbiate mai sentito nella vostra vita…perché era consapevole che riuscire a mettere insieme di meglio sarebbe stato quasi impossibile. Così, Fowler mi raccontò un po’ ci cose, su quel tour, ma sopra ogni cosa della difficoltà di riuscire a dare sempre , ogni sera, il meglio di se stessi, con un leader che ti impediva di concentrarti sulla musica mutando in continuazione tempi di esecuzione, interventi, scaletta o improvvisazione, con un solo cenno della mano destra!  “Dobbiamo suonare con un occhio chiuso pensando alle nostre note ed uno aperto su di lui per capire cosa starà per fare! E’ meraviglioso e tremendo al tempo stesso!”.
Ed il risultato sono due live di una difficoltà di assimilazione estrema ma anche di una bellezza cristallina, di un fascino senza fine. Musica difficile, rara, incomparabile, irriproducibile, ma che, seppur amata, non rappresenterà per chi la dovesse imparare a apprezzare, altro che una pedina nell’intero scacchiere zappiano.  Perché la musica di Zappa e la sua filosofia di vita, le sue produzioni non possono essere scisse : fanno parte di un unico progetto, di un unico “Tutto”, di quella Continuità Concettuale cui ha sempre fatto cenno. E non si tratta di deliri di fanatico, perché solo con Zappa è possibile ascoltare in un coro del 1970 la base essenziale di un assolo di chitarra sviluppato otto anni più tardi, o in uno strumentale apparentemente improvvisato del 1967 un brano orchestrale eseguito vent’anni dopo. No, la follia, qua, non vive. Se non per l’assoluta distanza da qualsiasi cosa voi potrete mai ascoltare in qualunque altro luogo. Né saprei o potrei mai indicarvi un inizio per trovare un bandolo di una matassa che nessuno è ancora riuscito a svolgere per intero. Ascolto con devozione, con assoluto piacere Zappa da quasi quarant’anni; spesso mi scopro intento a sorridere o a sorprendermi in espressioni facciali stupefatte senza saperlo. Ogni tanto, davanti a un assolo, muovo le mani, come si fa dopo aver gustato un dolce speciale, buonissimo, e non ne sono consapevole. In un paio di casi riesco persino, ogni tanto, anche a commuovermi. Conosco quelle note, quegli strumenti da sempre, ma ogni volta sono certo di sentirvi qualcosa di mai udito in precedenza. E non si tratta di sfumature.  L’America ha partorito il più grande Compositore del ventesimo secolo e non solo non se n’è accorta, ma , anzi, lo ha nascosto e confuso tra le pieghe del banale rock and roll. Scambiandolo per un iconoclasta produttore di musica “ribelle e sovversiva”.  E se lo scopo di queste nostre riflessioni fosse quello di riuscire a infondervi il seme della curiosità, sarei felice se anche solo qualcuno di voi sapesse, desiderasse e riuscisse a imparare ad amare un artista immenso. Zappa, però, non si sceglie. Zappa “ti sceglie”, penetrandoti sotto la pelle, insinuandosi a poco a poco, passando da una irritazione benefica, da una fastidiosa inoculazione di geni alieni, a una venerazione di carattere maniacale, religioso. Verso Frank Zappa non esiste un parere mediano : o lo si odia senza comprenderlo, o lo si apprezza senza condizioni, persino quando le proposte sono davvero fuori da qualsiasi schema logico. Almeno in apparenza.
Non sono in condizione per evidente stato mentale, di mettermi a raccontare la sua musica anche perché, come lui ebbe a dire “Scrivere di musica è come parlare di sesso”, ma vorrei provare a darvi qualche numero, qualche informazione utile al tentativo di mettere a fuoco il soggetto.  Frank Vincent Zappa nasce da padre siciliano e madre greca; la sua provenienza è Partinico, vicino a Palermo, dove, nel corso del tour del 1982, Frank volle recarsi e dove a Stefano Vai, anch’egli italo-americano, venne fatta una proposta oscena per strada. Frank Zappa ha cambiato formazione delle sue Mothers of Invention ogni tour, ogni anno. Talvolta anche tre volte nel corso dello stesso anno. I musicisti che hanno fatto parte di tutte le incarnazioni delle sue varie band o orchestre sono stati tutti musicisti di assoluto prim’ordine. Zappa è stato il più prolifico scopritore di talenti al mondo : andatevi a scorrere le formazioni per comprendere chi sia riuscito a scovare e far suonare la sua musica. Tutti i musicisti che hanno suonato con lui continuano a portare un marchio dentro di loro, come solo può accadere a coloro che sostengono di essere stati rapiti dagli alieni; e quell’impronta non li abbandonerà mai più, come ognuno di loro continua a ricordare in ogni occasione. Ad ogni elemento, Zappa consegnava il proprio spartito per l’esecuzione dei pezzi più difficili; ogni elemento significa ogni strumento presente, dal basso al sax tenore, passando per tastiere, chitarre e percussioni. Zappa ha fatto eseguire da orchestre sinfoniche le proprie composizioni; le orchestre sono state tra le più importanti al mondo e i direttori d’orchestra Zubin Mehta, Pierre Boulez, Kent Nagano tra gli altri.
La formazione dell’ultimo tour del 1988 sapeva eseguire 103 brani, di cui una ventina in quattro diverse versioni e una quarantina con tempi assolutamente diversi. Zappa è stato il pioniere della sperimentazione di alcuni suoni di chitarra, tra cui il pedale wah wah il cui uso suggerì personalmente a Jimi Hendrix. Buffo scoprire che su quello sterco di Satana che è Wikipedia, nell’elenco dei solisti che hanno sviluppato il suono wah wah, lui non compaia! Frank Zappa è stato uno dei più grandi chitarristi di sempre; i suoi assolo sono sempre stati lunghissimi e mai uguali a se stessi. I collezionisti di concerti sanno che non è possibile trovare un assolo di Zappa uguale a quello della sera precedente nel corso di ogni singola esibizione e raffrontando ogni singolo pezzo.  So che può sembrare pazzesco, ma è esattamente così : Zappa sviluppava i suoi assoli di sera in sera e li definiva “air sculptures”, sculture d’aria.  Di Zappa esistono 86 album ufficiali e alcune centinaia di bootlegs. Zappa ha cambiato più volte etichetta discografica perché insoddisfatto del lavoro che esse svolgevano per lui o è stato cacciato da queste per le proposte di pubblicare album quadrupli, tripli, doppi, in continuazione. A Zappa, nel 1987, venne richiesto dall’allora sindaco di Milano, di predisporre una opera teatral-musicale in occasione dei mondiali di calcio; l’opera avrebbe dovuto chiamarsi “Dio Fa”, secondo l’autore, ma non venne mai messa in cantiere perché Pillitteri si spaventò alla richiesta di una orchestra sinfonica troppo costosa.
Zappa era dotato di ciò che viene chiamato “orecchio assoluto”; in due note poteva capire se un qualsiasi strumento fosse scordato o se un musicista dei suoi fosse “out of tune” o fuori tempo nel corso di un pezzo. Lo stesso valeva per una orchestra di 70 elementi. In tal caso fermava l’esecuzione e faceva riaccordare lo strumento.  In quarantatre anni di vita della cosiddetta “Bibbia” del rock – il periodico americano Rolling Stone, non la versione italiana – Zappa non è mai apparso in copertina.  I suoi pezzi non hanno mai goduto di programmazione radiofonica per colpa dei testi, della lunghezza, della difficoltà… o dell’assoluta mancanza di “potenziale commerciale”.  Solo in due casi le radio americane hanno trasmesso Zappa : la prima è stata una versione ridotta di “Don’t eat the yellow snow”  e gli statunitensi parvero divertirsi molto all’ipotesi di… diventare ciechi dopo aver mangiato cristalli di neve gialla per la pipì degli husky.  Il secondo caso fu un brano dove lui e la figlia prendevano in giro il modo di parlare delle ragazze della Valle di San Fernando, quando scendevano a LA per fare la passeggiata : “Valley Girl” , una canzonetta da poco.  Se ricercate e lette sul web tutte le Zappa quotes, le citazioni letterali storiche, sono piccole perle di saggezza e ironia; famosa, su ogni altra, quella che detta : “Most rock journalism is people who can’t write, interviewing people who can’t talk, for people who can’t read”, “la maggioranza del giornalismo rock è composto da gente che non sa scrivere che intervista gente che non sa parlare per gente che non sa leggere”. Difficile dargli torto. Contestato dal responsabile dei musicisti della London Symphony Orchestra per la difficoltà delle sue note “impossibili da suonare”, Zappa rispose semplicemente : “…voi siete importanti musicisti classici e dite non poter suonare la mia musica. Bene, perché il mio gruppo rock ci riesce?”.  Steve Vai , l’uomo che ha trascritto tutte le partiture di chitarra di Zappa, disse che la facoltà di concentrazione di FZ durante i suoi solo era fuori norma; riusciva a recuperare una sequenza logica di note dopo un solo lungo oltre dieci minuti. E aggiunse : “Io non ci riuscirei mai!”. Chad Wackerman è stato l’ultimo batterista della sua band, il penultimo Vinnie Colaiuta, il terz’ultimo Terry Bozzio. Della potenza e della tecnica di Wackerman è inutile parlare, ma una volta, chiesto un parere sui suoi batteristi, disse : “Chad possiede una tecnica ed una fantasia d’esecuzione infinita….ma il suono delle pelli di Terry è “il suono” della batteria…”.
Nella foto: Vinnie Colaiuta
Potremmo andare avanti per ore, senza riuscire a mettere a fuoco il personaggio o la sua musica. Non vi resta che ascoltarla per provare. Qualcuno, magari, si sarà domandato perché io non abbia fatto cenno a un solo disco o a un brano in particolare; semplicemente perché ogni disco è una esperienza a parte ed una avventura a se stante, tranne gli album concepiti come logica sequenza. Pur facenti comunque tutti parte del Grande Progetto Oggetto. Ma vorrei indicarvi quattro assolo, e quattro brani da provare a sentire. Il primo è nel bel mezzo di “Inca Roads” e la versione che compare nel disco di studio è estrapolata dalla versione dal vivo che compare sul concerto di “You can’t do that on stage anymore Vol 2”; lì il solo è intero, non editato.  Il secondo è “Bowling on Charen”, un estratto di sola chitarra da Trance Fusion; il terzo è “Packard Goose”. L’ultimo è “Black Napkins” che compare ridotto su Zoot Allures, ma che, con un po’ di pazienza, si può trovare per intero su un famoso bootleg registrato ad Osaka, nel 1976.  Sarei onorato di conoscere i vostri pareri. Ma proviamo a tornare sulla Terra e ricominciare a parlare di musica.  Musica…
Se erano la follia, la non appartenenza, l’anomalia, i fili conduttori del nostro discorso iniziato molto tempo fa, tentiamo oggi di recuperarli. So che meriterebbero molto più di una scorsa veloce, ma spero di riuscire ad essere così bravo da stimolare i vostri centri recettori anche con un ricordo superficiale. Spesso una parola che stimolava la mia fantasia era l’aggettivo “zappiano”. Abbiamo appena spiegato quanto vago e utilizzato a sproposito potesse essere questo aggettivo, dato che l’unica cosa che poteva unire un gruppo “zappiano” al progenitore era l’approccio, il senso della dissacrazione, l’ironia. Dato che la musica era e resta unica.  Ma ricordo perfettamente di come mi gettassi da ragazzo su ogni band che venisse etichettata in tal modo. Salvo poi restare sostanzialmente deluso. Non avevo ancora capito quanto fosse esclusiva la fonte originale. Ma devo ammettere che alcuni, pur restando terreni esecutori di rock and roll, possedevano altre frecce nel loro arco, validissime e efficaci. Ricordo, ad esempio, che fu un brano di un gruppo di San Francisco, White Punks On Dope, che stimolò le mie fantasie annoiate. Ma mai avrei pensato allo spettacolo che quell’insieme di ex-universitari californiani sapeva mettere insieme dal vivo. Acquistai i primi due album, carini, ma non potevo immaginare, né ve ne sarebbe stato modo. Fu un articolo sul Melody Maker che mi spinse fino in Svizzera per vederli. I Tubes, il gruppo di Fee Waybill erano un insieme rock che mescolava teatro e effetti speciali alle proprie musiche dotate di buone composizioni, discreta tecnica, grande fantasia e testi divertentissimi. Ma lo spettacolo dal vivo era incredibile; forse, con il dovuto riguardo, secondo solo all’impatto visivo degli inarrivabili Pink Floyd. Ma laddove nei Floyd tutto era magnificenza, abbondanza, debordante uso di luci, mezzi, immagini e tecnologia, nei Tubes tutto era giocato sullo scambio continuo tra teatro e concerto rock. Waybill, eccellente interprete, era anche uno splendido attore, in grado di cambiare immagine, vestito e personaggio ogni due, tre canzoni, accompagnato da un gruppo senza dubbio efficace. E’ lo show registrato sul doppio album “What do you want from live” cui faccio riferimento, con una citazione doverosa : la parte finale, quella dove Fee Waybill impersonava una star del rock, tossica e glam, inutilmente glam : Quay Lude, che prendeva il nome da un ipnotico diffusissimo negli States, il Quaalude.
Quay entrava sul palco con stivali luccicanti alti mezzo metro, seminudo, non in grado di cantare perché ubriaco o completamente fatto, dimenticava i testi, veniva aiutato dai roadies a stare in piedi, una sorta di parodia ante litteram di quelle band tutte rossetto e parrucche provenienti da Los Angeles….. Quay riusciva a portare il proprio compito alla fine, cantando “we’re white punks on dope, mom and dad live in Hollywood, I hang myself when I get enough rope”…mentre intorno bellissime ballerine riempivano il palco e la band suonava un  eccellente rock.  I Tubes si sciolsero, privi di mezzi e denaro, non dopo aver tentato persino un paio, forse tre, di dischi commerciali. Inutilmente. Di loro il solo Vince Welnick finì a suonare tastiere negli immensi Grateful Dead.  Un gruppo da riscoprire, ma non senza provare a visualizzarli; forse qualche video dovrebbe ancora essere in circolazione. Imprescindibile visualizzarli negli spettacoli tra il 1978 e il 1980.
E cosa dire della “famiglia” guidata e moltiplicata da Bootzy Collins, di quelli indefinibili Parliament o Funkadelic che è lo stesso? Loro rappresentavano l’apogeo della musica nera, del funky, quello vero, mescolato con tutte le caratteristiche del rock duro bianco unite al rhythm and blues e a lunghe scorribande di difficile digestione per chi sia abituato al solo suono duro del rock, ma divertentissimo con le sue coloratissime esibizioni e con i suoi solisti che emergevano tra tonnellate di ritmi iper-funky, super cadenzati, pronti a lasciare spazio a lunghe scorribande soliste nel nome di Hendrix, un vero progenitore di quei suoni ed un mito per tutti i musicisti neri.  Tutte le band hard rock che hanno fatto uso di ritmi funky ( I Red Hot Chili Peppers giusto per citarne il più famoso) devono a loro moltissimo. Se non tutto. Di quei lidi, decisamente ai confini della vostra immaginazione, vi pregherei di provare a godere di “Maggot Brain”, un bellissimo, lento, affascinante solo di Eddie Hazel, il cui album “Game dames and guitar thangs” vi suggerirei in ogni caso di recuperare, perché essenziale per capire molte deviazioni funky metal di oggi. So che su YouTube esiste una versione di quel solo attribuita a Michael Hampton e del 1978. Non importa se sua o di Hazel, quella versione : è bellissima, provatela! Come dovrebbero provare tutti i fan dei Led Zeppelin a sedersi per un po’ davanti alle versioni reggae del Mito dei simpaticissimi Dread Zeppelin, dove se l’invenzione di eseguire i brani della storia del rock in versione reggae, mescolando citazioni di ogni genere all’interno della medesima canzone non sembrasse sufficiente, l’idea di avere un cantante grasso e vestito come l’ultimo Elvis, cantare in perfetto stile Presley seguendone le movenze e con un robustissimo supporto hard rock alle spalle dovrebbe spingere almeno al tentativo.  Io che non avrei mai scherzato né con i Santi né con qualsiasi imitatore del “Martello degli Dei”, ricordo che me ne innamorai subito : Tortelvis, il cantante, Heartbreaker cantata a metà tra la versione degli Zeppelin e la Heartbreak Hotel di Elvis, mi affascinarono. L’operazione non era dissacrante, ma amabilmente devota.  E poi, la divertentissima  Carry That Weight  dei Beatles, con una amabile citazione della The End dei Doors all’inizio, o la Baba ‘O Riley degli Who, Immigrant Song con i riff di mille altre canzoni degli Zeppelin….se non è delirio questo…
C’è molto altro da dire, c’è una Storia che ci aspetta dietro ogni nota e dietro ogni volta che decidiamo di andare oltre i nostri ipotetici confini segnati. C’è molto, moltissimo, da imparare, per tutti, è solo il coraggio, la voglia, che manca, talvolta. Ma è necessario scegliere di non morire inchiodati alle stesse posizioni che ci permetterà di aprire le nostre vedute e allargare i gusti. “Free your mind and your ass will follow”, cantavano i Funkadelic e mai citazione fu più adatta. In fondo non costa nulla, no?
L’ultima volta che ci siamo letti era qualche mese fa. Mi scuso per non aver ottemperato a una promessa per un po’ di tempo, ma a volte, la vita ci prepara piccoli intoppi che non siamo mai pronti ad affrontare. Gli zappiani più attenti – se ve ne saranno tra queste pagine – sanno che, nascosto tra le note di copertina di un cd – bellissimo, tra l’altro e che vi raccomando caldamente – “Roxy and Elsewhere”, Zappa inserì l’unico commento che gli sia mai sfuggito sulla scoperta della sua malattia. Vado a memoria…”Sarete sorpresi che, lo vogliate o no, l’Universo continui a fare il suo lavoro”.
Ecco, in queste poche parole, spesso, si nascondono le insidie che la vita ci mette di traverso sul nostro percorso. Bisogna avere il coraggio e la forza di imparare a saltare. Finché ci è possibile. A presto.
Giancarlo Trombetti