Heavy

Intervista Manowar (1982-1983)

Di Stefano Ricetti - 18 Aprile 2006 - 10:02
Intervista Manowar (1982-1983)

Manowar: adorati e stimati, sbeffeggiati e derisi. Questa è la loro sorte! Sicuramente non lasciano indifferenti. L’articolo che segue è un trittico letale: le recensioni per mano del decano Beppe Riva di Battle Hymns e di Into Glory Ride oltre all’intervista di Piergiorgio Brunelli a Joey De Maio. Si tratta di tre autentiche chicche metalliche, così mi sento tranquillamente di poterle definire, rispolverate direttamente dai primi anni ottanta e qui riproposte in versione rigorosamente originale, per la gioia dei lettori più stagionati e la curiosità dei metallari di recente acquisizione. Mi permetto di commentare quanto riportato in seguito per dare una panoramica introduttiva a chi si appresta a intraprendere questo singolare viaggio nell’epic metal. Le recensioni di Beppe Riva trasudano passione e competenza, e fin qui niente di nuovo… Il periodo però nel quale scrive il maestro del giornalismo HM italiano mi sento di poterlo definire come “mistico”, altamente spirituale e a tratti onirico, ieratico nell’esposizione e trasudante poesia eroica da ogni rigo.

Il Nostro, dopo la salutare ubriacatura della Nwobhm, si getta a capofitto nel primo gruppo di un certo peso che fa del metallo epico il proprio credo, convertendo a questa nuova dottrina la sua magnifica penna che, fino ad allora, aveva decantato le gesta del metallo gioviale e scoppiettante dei vari Saxon, Iron Maiden, Judas Priest e Motorhead. Spesso, scherzando con il sempre ben disposto Beppe, gli ricordo che in quei primi anni ottanta la sua cronaca sobbalzava non appena da un Lp traspariva l’immagine di un elmo piuttosto che di uno spadone alla Excalibur. Da notare che recensioni di album dei Manowar erano impossibili da trovare in qualsiasi altra rivista musicale in Italia e che gli articoli di Riva furono il maggiore strumento di diffusione della musica dei quattro guerrieri di New York nel nostro paese. In occasione della loro prima calata in terra Italica, infatti, Joey & soci si sono sperticati in ringraziamenti personali al giornalista di Rockerilla, assolutamente meritati. Sia nelle recensioni che nell’intervista di Brunelli (il commento a riguardo è appena prima dell’articolo) viene enfatizzata la figura di Ross the Boss, originario chitarrista dei Manowar, che agli inizi rappresentava la vera punta di diamante dei newyorkesi… poi la storia ha imposto Joey De Maio, ma questa è un’altra vicenda.

Stefano “Steven Rich” Ricetti       

 

                 

Recensione tratta da Rockerilla numero 27 del settembre e ottobre 1982

Monster of Power
Album Estate ‘82
Manowar – Battle Hymns

Manowar, contrazione terminologica di Man-of-War, è il colosso bellico ideato da Ross the Boss, il leggendario axe hero dei Dictators, in una sconosciuta base canadese, con la complicità di Joey De Maio, pubblicizzato anch’esso come ex Dictators, ma che mai ha presenziato in incisioni ufficiali della band newyorkese. Certamente De Maio ha fatto parte dei Thunder, una band che si avvalse delle prestazioni dell’asso dei Rods, David Feinstein. Ross Friedman ha abbandonato Shakin’ Street, la corte dell’irresistibile donna felino Fabienne Shine, con cui incise un eccellente album prodotto da Sandy Pearlman, onde imporsi definitivamente per quello che è sempre stato, ossia uno dei campioni assoluti della chitarra heavy metal.

Il problema per il magnifico duellante di Manifest Destiny, è che mai il pubblico dell’hard ha saputo accorgersi del suo talento, poiché i Dictators suonavano “HM for punk” (e fu il motivo della loro débacle, la mancata determinazione di un pubblico di riferimento), mentre gli stessi Shakin’ Street soffrirono a dismisura la loro condizione di partenza (scarsa sprovincializzazione?) di French Rockers. Fortunosamente, Ross ha capito TUTTO, si è appartato prima dell’estrema capitolazione, con gli occhi bruciati dalla visione delle incomparabili saghe storiche che hanno soggiogato il mercato cinematografico, Excalibur, Conan, Clash of the Titans e ha concepito il CAPOLAVORO Battle Hymns, un album concept totalmente imperniato su miti e mostri.

Deviando nettamente il punto focale delle precedenti esperienze, Ross si è votato a un megacosmo heavy metal dall’intransigente assalto, sovraccarico di rifrazioni orrorose, coinvolgendo addirittura Orson Welles in funzione di narratore in un agghiacciante tema di morte e distruzione: Dark Avenger (Il vendicatore delle tenebre!), è più sabbathiano degli stessi Black Sabbath, munito di una mortale cadenza rallentata che sfocia nel tormentoso ruggito della chitarra di Ross, straripante in un assolo estremista. Per la prima volta Ross accetta tutte le infatuazioni delle fantasie gotiche inglesi, ingaggia un vocalist, Eric Adams, che possiede le dirompenti intonazioni vocali di Ronnie James Dio, e il risultato è un’incisione che ha la forza di rappresentazione di una pellicola cinematografica, dotata di un’inaudita soundtrack. Ascoltate Battle Hymns (il brano), e provate a immaginare miglior colonna sonora per i cozzi ferrigni di immani armi medievali. E se è necessario morire, si sognerebbe se accadesse per l’esplosione delle vene, ingigantite dalla tensione dell’ascolto di Battle Hymns, nel momento supremo dell’estasi, per poi raggiungere l’heavy metal heaven (or hell!) auspicato dal guerriero che mostra la compressione dilaniante dei suoi muscoli sulla back cover dell’elpee.

Manowar si pone in aperta sfida con i titani britannici Ozzy Osbourne, Judas Priest, Black Sabbath, per l’eccitazione di chi ha sempre riposto nel metallo epico le maggiori credenziali di coinvolgimento musicale e Battle Hymns, incontestabilmente, gli dà ragione! Detto dei due titoli “superiori”, va aggiunto che mai la feroce aggressione dell’album, repentinamente mandata in orbita dall’opener Death Tone, subisce attimi di scadimento, e che brani come Fast Taker e Shell Shock decollano inesorabilmente per il micidiale propellente inoculato dagli amplessi solistici del determinatissimo Ross. Manowar ci prospetta per il futuro titoli quali Chinese Torture e Gates of Valhalla, già inclusi nel live show; per ora Battle Hymns è prova che merita termini non meno altisonanti e ricchi di suggestione della sua intimidatoria tracklist. Se il fato non traccerà per loro destini avversi, le due filiazioni dei Dictators, Manowar e Twisted Sister, si accingono a dominare il mondo!

Beppe Riva                   

 

Recensione tratta da Rockerilla numero 37 del settembre 1983

Manowar
Into Glory Ride

 

Un anno fa, ogni affiliato alla tavola rotonda dell’hard si inchinava a un nuovo signore, Manowar, dall’imbattibile spettacolo di potenza offerto dall’Lp Battle Hymns. La dimostrazione? Il tema che intitola l’album è il maggior crimine di lesa maestà contro l’epic metal inglese mai commesso su vinile: un parossistico grido di battaglia risuona sulla scena dell’olocausto… Kill! Kill! Kill! E Manowar colpiscono con la stessa, premeditata ferocia che avremmo attribuito alle scorrerie degli Unni di Attila. Cori wagneriani intensificano l’enfasi sinfonica della più imperiosa porzione musicale ascoltata in oltre venti anni di storia del rock’n’roll, e il risultato trionfante, Victory!,  suona come un verdetto di sottomissione rivolto a un pubblico europeo mai totalmente conquistato da HM band americane. Laddove Aerosmith, Blue Oyster Cult e Kiss hanno parzialmente fallito, Manowar possono riuscire per la devozione quasi mistica che avvertono nella loro musica, la stessa fede che rende incorruttibili le audience dell’hard. Heavy metal non è per loro una scomoda categoria da cui rifuggire… “Noi siamo totalmente nell’HM” – sentenziano – “E non ci saranno mai concessioni nella nostra musica, suoneremo sempre più heavy!”

Chi liquida i metal rockers tacciandoli di essere commerciali o di mistificazione, dovrebbe sottoporsi a una dura autocritica ascoltando le dichiarazioni dei Manowar, tese a schernire il pubblico di massa americano: “Le audience americane non conoscono il vero HM… e la causa risiede nelle radio station, che impongono false band di metallo edulcorato, tutti gruppi senza “balls”! E non si sono smentiti nemmeno presentandosi all’Aucoin Management, celebre per aver fondato l’impero dei Kiss: “Non suoniamo come nessun gruppo commerciale , in senso radiofonico, il nostro è vero heavy metal, la massima lega del rock’n’roll”.

Non a caso, la band su cui spergiurano sono i Black Sabbath, il combo HM definitivo, di cui ammirano la linea integerrima nel rifuggire arrangiamenti ed effetti speciali, nel bruciare on stage heavy music senza artifici. Bien sur, la formazione più offensiva dell’America anni ’80 è interamente di estrazione newyorkese: Ross the Boss proviene dal famigerato Bronx, Joey De Maio ed Eric Adams da Syracuse e di New York era anche l’originale drummer Donnie Hamzik, sostituito nella cavalcata della gloria dal gigantesco Scott Columbus. Il progetto Manowar scatta nel corso del Black&Blue tour (denominazione derivata dagli headliner Black Sabbath e Blue Oyster Cult): Joey incontra Ross, che agonizza nella sfortunata band francese Shakin’ Street, e il guitar hero del Bronx  decide di unirsi all’ex bassista dei Thunder, formazione di Syracuse dove si era segnalato anche Rock Feinstein, futuro axeman dei Rods. Notoriamente Ross the Boss aveva militato nei Dictators, la cult band di NY dalla quale però era fuggito in preda alla frustrazione: lo angosciavano gli orientamenti indefiniti di Manitoba & Co., e ancor oggi Ross si chiede se i Dictators erano hard, new wave, punk oppure… un gioco.

Tutt’altra cosa comunque dal concetto determinante che ha animato i Manowar fin dalle origini: completata la line up con Eric e Donnie, i nuovi barbari indirizzavano alla Emi un loro demo tape e la label li scritturava per il primo Lp Battle Hymns (maggio 1982). L’album, con un logo intimidatorio che sfoggia un maestoso condor dalle ali spiegate non solo è il miglior hard/rock’n’roll album dell’anno, ma è certamente da annoverare fra i dieci “all time HM classics”, a dispetto dei difetti di produzione lamentati dagli stessi autori. 

Death Tone colpisce con la stessa grazia di Conan che addenta l’avvoltoio intento a lacerargli le carni e Dark Avenger, con il grande Orson Welles in veste di narratore, è un dramma orroroso di indicibile forza espressiva. Lo stesso attore inglese si è detto impressionato dai Manowar, e si è offerto per l’incisione di un follow-up: Defender. Un vero gentleman, hanno commentato i power metaller americani! Battle Hymns include anche un singolare esercizio virtuosistico, un adattamento del Guglielmo Tell di Rossini ad assolo di basso. Joey De Maio vuole provare al mondo di essere il più veloce bass player sulle scene, ma nega di essersi avvalso di effetti speciali, ammettendo di aver lasciato gli errori per rendere l’assolo più emozionale, non meramente tecnicistico. All’epoca la loro attività concertistica si limita ad alcune club date in Florida, durante la registrazione dell’Lp, ma la loro prima tournée di rilievo è costituita da sei presenze come supporter di Pat Travers e Ted Nugent. Il ruolo di riattivatori di braci un po’ spente si addice ai Manowar, meno al “leone di Detroit” , che non ama mettere in discussione il suo status di epicentro delle attenzioni. Inizia così un anno travagliato per i fighter armati di gladio, che perdono l’appoggio della Emi e limitano le loro comparse sulla terra sacra del palcoscenico.

La soluzione finale avviene quest’estate, sotto forma di un contratto per la nuova Megaforce, label di Jon Z (per l’America) e con la Music for Nations (in Inghilterra-Europa). Ross e Joey vengono immortalati dal fotografo mentre firmano con il proprio sangue il contratto discografico a New York, e il loro mentore Jon Z non perde occasione per provocare ulteriormente i gusti del pubblico americano: questo sono i Manowar, non i Men at Work! Pubblicizzato come “THE” heavy metal album, esce così nell’afa estiva (29 luglio), il più torrido, feroce e potente platter dell’anno: Into Glory Ride. “Combattiamo fino alla morte, fino all’ultimo uomo, fino all’ultimo respiro. Morte al falso metallo nella cavalcata della gloria”. Può sembrare una citazione roboante, e certamente la concezione epica dei Manowar è per sua stessa natura animata da caratteri retorici. Ma ogni riserva è annientata dal sacro furore che regge le sorti della band, dall’inossidabile convinzione che ne fa oggi il termine di paragone massimo dell’HM.

Tutta la mitologia che infonde l’anelito vitale in questo genere di musica si sublima nei Manowar: nell’83 il pubblico più emozionale del rock ha ancora bisogno di EROI, e Manowar è la pura incarnazione dell’eroe, ma in senso assolutamente ideale e leggendario… mitologia, non ideologia. Per mimetizzare (o sdrammatizzare…) la sua carica titanica, Into Glory Ride esordisce sul comico stralcio di una commedia sexy, per affondare immediatamente i colpi in Warlord: Eric Adams si proclama “Warlord of the Road”, un dio dannato che trae nutrimento dalle scorrerie sulla Harley Davidson, riducendo gli assi motorizzati di Motorhead e Saxon a livello di inoffensivi piloti di scooter.

Il drumming di Scott Columbus incrementa la compressione terrificante del sound dei Manowar con uno stile roccioso, durissimo, ma non privo di agilità. L’alone di fantasia gotica che identifica i Manowar riprende vigore in Secret of Steel, storia di una spada dagli inauditi poteri, l’Excalibur del Man-of-War! Evocative cadenze sabbathiane, squarci di Battle Hymns, nella solennità dei cori. Ritorno alla realtà nella esaltazione del rituale metallico on stage attuato da guerrieri chiamati Metal Kings. Sospeso su background ritmico assolutamente ossessivo, Ross regala un assolo quasi lirico: Gloves of Metal, l’arte del riff ultra-heavy. Le porte del Valhalla degli eroi chiamati al cospetto di Odino si spalancano di fronte a Manowar e l’enfasi melodica acquista accenti soprannaturali sulle ali delle eteree tastiere di Ross; poi un riff fracassante lancia la sua sfida a Where Eagles Dare dei Maiden: epic metal al massimo grado. Tormento e dolore si acuiscono sulla seconda side (Hatred), che svela definitivamente il talento, la duttilità del vero protagonista dell’album: il vocalist Eric Adams, l’incrocio sognato fra Ozzy e Ronnie Dio, un frontman che può essere emulato, a livello di ultime leve, solo da David DeFeis e Geoff Tate.

Manowar eccellono nell’inserire fraseggi atipici nelle più poderose, tradizionali orditure metalliche, ed è un ennesimo sintomo della loro classe superiore. Revelation si confronta ancora con i canoni del british HM e la progressione finale è indice del piglio vendicativo degli “dei del tuono” americani. L’ultimo testo maledetto s’intitola March for Revenge: un’autentica sinfonia mostruosa dove lo stregone Eric Adams invita alla resurrezione dalle profondità infernali i soldati della morte. Un epilogo degno di riattualizzare i fasti dell’inno di battaglia che chiudeva i battenti all’esordio. Into Glory Ride sarà seguito da un singolo includente Defender (con Orson Welles special guest) e Gloves of Metal, ma nel frattempo lasciatevi avvincere da questo mortale assalto all’arma bianca. Manowar possono farvi rinnegare qualsiasi credo, in questo 1983; il titolo di tiranni dell’heavy metal non è più vacante: Manowar ne sono i padroni!

Beppe Riva                                                     

 

 

Qui di seguito l’intervista a Joey De Maio da parte di Piergiorgio Brunelli, uscita su Rockerilla numero 38 dell’ottobre 1983. Fu la prima dichiarazione ufficiale dei Manowar nei confronti di una rivista italiana della loro storia e non escludo addirittura a livello mondiale. A tratti risulterà un poco sfilacciata, ma volutamente non sono intervenuto a modificare alcunché della versione originale per testimoniare lo stile e lo spirito di articoli di questo tipo negli anni ottanta.  

Stefano “Steven Rich” Ricetti  

Intervista a Joey De Maio realizzata da Piergiorgio Brunelli. Tratta da Rockerilla numero 38 dell’ottobre 1983.

Era settembre, le lunghe ombre della sera cominciavano già a penetrare come lunghe dita sinuose attraverso i vetri del Mandeville Hotel. Era settembre e la lunga estate britannica, quest’anno più clemente del solito, era finita. Le foglie già odoravano d’autunno; i parchi impregnati di questo umore penetrante avevano assunto colori contrastanti. La gamma spenta dei gialli e degli arancioni delle foglie morte aveva toni ambigui confrontati al rinnovato verde dei prati ancora bagnati dalle recenti piogge. Era settembre e nell’aria c’era qualcosa di strano. Un’atmosfera pesante era calata all’improvviso come se gli ultimi concerti di Anvil e Twisted Sister avessero lasciato ferali presentimenti mortiferi. Era settembre, la belva era arrivata. Joey De Maio era in città a definire i dettagli della futura tournée dei Manowar: la prima, la più attesa, la più pericolosa.

(Joey) Il nostro messaggio è il volume che con la nostra immagine completa questo terrificante assemblage di potenza. Non abbiamo bisogno di effetti speciali, flashing bomb o trucchi. Noi vendiamo metallo puro.

Le vibrazioni del metallo fuso già echeggiano nelle mie orecchie e Joey a queste parole abbina uno strano fremito selvaggio.

(Joey) Per tutta la mia vita ho avuto il culto della potenza. La sua attrazione mi ha portato a essere sempre molto spericolato con moto di grossa cilindrata e automobili. Ma tutte queste espressioni di potenza hanno un limite nella morte per eccesso di velocità. Nella musica non c’è eccesso di volume, è innocua, puoi continuare senza controllo in eterno, è qualcosa che puoi fare per tutta la vita senza fermarti mai.

Infatti dopo ben quindici anni il demone heavy metal non è ancora stato ucciso da nessun wimp.

(Joey) Io e Ross the Boss ci siamo incontrati tre anni fa in Inghilterra. Dopo aver suonato in club, orchestre, musical, ho cominciato a fare delle demo per conto mio, perché di fare una piccola parte in un piccolo gruppo ne ero stufo: non ne valeva la pena. Così sono partito in tour con i Black Sabbath come roadie. A Newcastle sono andato a vedere per curiosità il gruppo spalla: gli Shakin’ Street dove suonava Ross. La band non era un granché, ma Ross era veramente incredibile per velocità: sembrava posseduto. Ci siamo incontrati nel camerino e abbiamo cominciato a suonare a tutto volume. Ne è venuto fuori qualcosa di talmente esplosivo che abbiamo deciso di formare un gruppo: senza nessun compromesso di sorta, il più loud e heavy del mondo. Ovviamente, quando decidi di prendere questa strada sai in partenza di non essere destinato a fare molti soldi. La radio non ti considera; non hai l’appeal per le grandi masse; sarai solo una cult band e devi accontentarti, devi  essere felice così. Metal è l’unico modo di essere, se i soldi arrivano: bene, altrimenti bene lo stesso.

Ross the Boss precedentemente ai Manowar e ai già citati Shakin Street si era fatto apprezzare come membro dei Dictators, un gruppo newyorkese crossover tra punk-rock-pantomima, che ebbe un discreto successo a cavallo degli anni ’77-’79.

(Joey) Non c’è assolutamente nessun tipo di esperienza musicale portata nei Manowar dai Dictators. Quel gruppo era uno scherzo, una commedia. Per lui è stato solo una grossa esperienza a livello di lavoro in studio. Quella non era musica seria. L’unico musicista apprezzabile era Mark Mendoza, ora nei Twisted Fuckin’ Sister, che però era troppo loud e bravo per loro: infatti è stato licenziato.

L’immagine dei Dictators è sicuramente stata di scarsa ispirazione per Ross. I nuovi barbari sono forse la cosa più scioccante del 1982 dopo certi mascara di Wrathchild e Motley Crue: grotteschi, si, ma in fondo abbastanza inoffensivi nella loro ambiguità.

(Joey) Molta gente pensa che noi abbiamo copiato la nostra immagine da Conan il barbaro, senza pensare che il film è uscito ben un anno e mezzo dopo l’origine dei Manowar. Noi volevamo essere heavy, loud e selvaggi per cui abbiamo voluto ricercare qualcosa di nuovo e diverso dal solito cuoio di Priest & Co. Per risultare grezzi e selvaggi abbiamo pensato agli animali. E quale è stato il periodo nel quale l’uomo è stato più vicino all’animale se non quello che i nostri costumi rappresentano? Nella vita privata non sono un violento, ma il nostro metal è violenza vera e propria. Un istigatore di aggressività. Ogni spirito violento deve essere risolto attraverso la musica, all’interno della musica. Non mi interessano manovre politiche e guerra.

Ma di politica e guerre il 1982 ne è stato pieno per i Manowar. Come tutti sanno, il gruppo è stato licenziato dalla Capitol soltanto un mese dopo l’uscita di Battle Hymns senza motivi apparenti (forse non si gradiva troppo l’immagine). Ne seguì un oscuro periodo di manovre manageriali e discografiche.

(Joey) La ragione fondamentale della rottura del contratto è la natura troppo commerciale della Emi/Capitol. Loro hanno in preferenza gruppi contry, pop, easy listening: il falso metal, insomma.

C’è da precisare che per false metal Joey intende due generi di gruppi: il primo è quello che comprende gente come i Saga o i Journey, che si spacciano per gruppi heavy per far presa su una fetta maggiore di pubblico e intascare più soldi. Al secondo genere appartengono quei gruppetti che innalzano la bandiera dell’heavy metal per farsi un nome, ma in effetti la loro musica non è latro che tanta confusione contornata da qualche assolo.

(Joey) La nostra vera guerra è contro questo false metal: noi vogliamo vedere questa gente fuori dalle HM chart, fuori da questo mondo!

Tutta la carriera dei Manowar è stata profetizzata da una persona da nome carismatico: il Sacred King.

(Joey) Il Sacred King non è altri che Robert Curie, cioè la persona che ci ha scoperto. Lui ha preso la band dal nulla. Ha visto me e Ross suonare in un garage con solo l’uso di basso e chitarra, senza vocal e batteria. La sua reazione è stata immediata: se ne è stato sconvolto per dieci minuti contro il muro non potendo credere alle sue orecchie. Disse che quello era il più travolgente heavy metal che avesse mai sentito.  Ci mettemmo in contatto con un nostro amico vocalist e reclutammo un batterista per registrare la prima demo tape. Considerati i suoi ottimi rapporti con la Emi, Robert riuscì a farci firmare un contratto con loro, ci trovò uno studio e tutte le apparecchiature che ci mancavano.

La Emi, però non rimase particolarmente impressionata da certe visioni mitiche della vita…

(Joey) Sia io che il gruppo siamo totalmente immersi in quel periodo. La nostra società è talmente stressante, piena di problemi e di politica che spesso si sente il desiderio di evadere da questa situazione. Quello che io descrivo era un’era felice per l’uomo: quando si aveva fame si prendeva il cavallo e si andava a caccia; si prendeva quello che era necessario per nutrirsi e lo riportava alla propria donna che attendeva al castello o alla grotta e tutto era più semplice. La mia mente è alla ricerca della semplicità di quel tempo; era un modo più divertente per vivere.          

Non tutti i tuoi testi sono però così semplici e mitizzanti. Dark Avenger è un esempio preso da Battle Hymns della predominante atmosfera dark che si sviluppa a partire dalla title track fino a completarsi in Into Glory Ride.

(Joey) La canzone è stata registrata in Florida e c’era un parte narrata che non s’addiceva a essere cantata. Così siamo andati alla ricerca di una voce forte e potente, molto più adatta alla recitazione, rispetto a quella di Eric Adams. Ci è venuta in mente la più grande voce in questo campo: quella di Orson Welles. Abbiamo contattato il suo manager facendo presente di quale onore saremmo stati gratificati se lui avesse accettato. Ci è stata richiesta una copia del testo da recitare. Orson l’ha letta e gli è piaciuta artisticamente, perché ha molta fantasia: è un visionario. La sua immaginazione lo porta a vivere dieci anni più avanti degli atri cosicché non è stato troppo difficile andare d’accordo. Lui è stato sempre molto gentile con noi, e ha anche donato la sua voce per la cassetta introduttiva del concerto. Avremo anche la sua collaborazione sul nuovo 12” chiamato Defender che sarà pubblicato fra un paio di mesi. La sua voce è incredibile, irreale.

Fra le tante cose sorprendenti di Battle Hymns si segnala al di sopra di tutto una ambiziosa versione di Rossini che fa meditare alquanto sulla connessione fra HM e musica classica. C’è chi trova il legame assai stretto…

(Joey) La musica classica è heavy metal; la sola differenza è che non usavano le chitarre elettriche. Rossini e Wagner fanno heavy metal, l’hanno cominciato loro. Non c’è niente di più potente di quei timpani e piatti. Noi stiamo entrando sempre più in questo genere con cose tipo March for Revenge (by the Soldiers of Death) dove Ross suona le tastiere e io il basso a otto corde oltre al bass pedal. La nostra musica è sempre più sinfonica, perché è da lì che il metal ha avuto origine. Per essere in questo campo, però, bisogna sentire quello che si fa. Il nostro primo batterista non picchiava abbastanza per un gruppo come i Manowar. Non solo bisogna distruggere la batteria, ma anche vivere la parte, essere un guerriero nel profondo del cuore come noi. Donnie Hamzik non aveva questo feeling, era un batterista più sul genere Rush; si diceva sempre che il suo cuore non era abbastanza nero. Scott Columbus, invece, è così duro che rompe i supporti di metallo della batteria ogni volta che suona. E’ inumano. Into Glory Ride è diverso da Battle Hymns: è il prosieguo del brano omonimo. Questa canzone è l’esatta descrizione del gruppo che non suona né a velocità supersonica, né troppo lentamente. La nostra è una velocità trionfale, maestosa; un suono reale! Una velocità media, forte, come se stessi cavalcando. Immagina un esercito a cavallo schierato che avanza compatto. Questo è il modo in cui sentiamo la musica: la cavalchiamo. In Into Glory Ride alcune canzoni sono più lente, dark e profonde perché abbiamo avuto un anno difficile e tutte le vicissitudini ci hanno influenzato musicalmente. Avevamo un tono vendicativo in mente.

Into Glory Ride inizia con una musica un po’ diversa che ricorda molto certi episodi di Arancia Meccanica. Musica come messaggio sessuale?

(Joey) Assolutamente no. In ogni album cerchiamo di dedicare una canzone ai biker (o rocker che dir si voglia) che sono i cavalieri dell’era moderna. I motociclisti sono persone molto libere e selvagge che si prendono quello che vogliono dalla vita come gli uomini di un tempo. Warlord è dedicata a coloro che a bordo delle loro moto si divertono e si prendono tutte le donne che vogliono senza problemi. Così abbiamo pensato alla paradossale situazione di genitori che tornano a casa e trovano inorriditi questo capellone con la giacca di cuoio a letto con la figlia minorenne. Forse è la cosa peggiore che possa capitare a un genitore. Abbiamo inserito queste due righe per farci un po’ di risate.

Kill me if you can/ death is life/ we fight to death, to the last man…

(Joey) Non ho paura della morte perché ho la coscienza pulita e ritengo di avere ottenuto dalla vita abbastanza soddisfazioni. Il vichingo vive per morire gloriosamente e, in ogni caso, in qualsiasi modo la si guardi, la morte è vita. Non credo ci sia un inferno o un paradiso, se avessi paura del diavolo potrei dire di crederci, ma non ne sono intimorito, di conseguenza non ci credo. I Manowar, poi, sono invincibili.  Non c’è nessuno al mondo che possa batterci; l’unica cosa che ci può fermare è la decisione di scioglierci, il che avverrebbe solo se non fossimo accettati dalla gente come ci aspettiamo. Noi non apparteniamo all’America, non c’è interesse là, noi apparteniamo all’Europa: la patria dell’heavy metal. Con noi ci sono due soluzioni: o siamo amati, o odiati a morte; perché chi è con noi, con il vero metal, lo sarà per sempre. Noi siamo l’estremità dell’HM, noi siamo la macchina di distruzione. In Europa siamo un grosso culto nonostante non vi abbiamo mai suonato dal vivo, cosa molto importante per noi. Il nostro suono su disco è molto difficile da ricreare, perché in concerto riusciamo a dare ogni briciola di energia, ogni goccia di sudore, ogni stilla del nostro sangue. Perché noi viviamo per il metallo. Se l’Europa è la sua patria, noi siamo destinati a stabilirci qua.

Qual è la differenza fra i Manowar e gli altri gruppi heavy?

(Joey) Gli altri sono degli headbanger, suonano a 100 Km all’ora; sono bravi, ma non c’è paragone. I Manowar vanno oltre al musica, sono l’incarnazione dell’idea dell’uomo come ultimo essere. A noi basta guardarci allo specchio per scoprire quello che vogliamo dalla vita. Siamo noi gli eroi di noi stessi. Siamo dei guerrieri che vivono a secoli di distanza dal loro tempo, siamo solo più evoluti. In Gloves of Metal c’è molta della nostra filosofia della vita: la nostra unità è indivisibile. Siamo un esercito che combatte contro la presa in giro del false metal, perché non derubi più nessuno con la musica di terza categoria. Prima ho detto che non ero religioso, ora ti dico che lo sono: credo nei Manowar. Nel business c’è chi ci denigra, ma ti dico che lo stato di questo business è rovinato dagli idioti che gestiscono le case discografiche e le publishing companies di tutto il mondo e dai gruppi che fanno solo del rumore. La mia risposta a tutti loro è questa: ogni cane ha il suo giorno; quando le luci si spengono e vai sul palco, o colpisci, o sei merda e non puoi prendere in giro la gente, soprattutto in Europa.

Piergiorgio Brunelli                        

 

Articolo a cura di Stefano “Steven Rich” Ricetti