Vario

Live Report: Metaldays 2016 @Tolmin (Slovenia) – Parte I

Di Daniele Peluso - 20 Settembre 2016 - 14:00
Live Report: Metaldays 2016 @Tolmin (Slovenia) – Parte I

METALDAYS FESTIVAL 2016
TOLMIN (SLO)
24-30 LUGLIO 2016

PARTE I – 25-26 LUGLIO

Live Report a cura di:
Antonio Saracino, Daniele Balestrieri, Daniele Peluso, Nicola Furlan

Photo Report a cura di:
Daniele Peluso

 

Incastonato nella valle tra i fiumi Tolminka e Soca, nostro Isonzo, il Metal Days stende i suoi metallici tentacoli per la dodicesima volta a partire da lunedì 24 fino a sabato 30 luglio.
Poco è cambiato rispetto al Metal Days dello scorso anno, ma per chi ancora non conoscesse il festival metal più lungo del mondo, ecco una breve panoramica su come vengono gestiti dodicimila metalhead e oltre 80 band dalla MIFI, società slovena con sede a Ljubljana che si è presa carico della gestione totale dell’evento dopo un breve intermezzo organizzativo tedesco.

La sede del festival giace accanto alla città di Tolmin, che in quella settimana vede la sua popolazione raddoppiare dal 2004 a questa parte; l’intera cittadinanza, un po’ come accade anche nel paesino di Wacken, si organizza come può per far fronte all’orda incombente. I supermercati locali fanno generalmente incetta di birra, per lo più la locale Lasko/Union, le banche quadruplicano il rifornimento di contanti dei bancomat e i ristoranti locali tendono a “streamlinizzare” i menu offrendo cibi generalmente grassi e ad alto contenuto calorico come carni al BBQ immerse nelle salse più disparate. Anche gli abitanti del luogo approfittano come possibile trasformando garage in birrerie improvvisate e cortili in giganteschi barbecue, tutto ovviamente nel segno del metal. Come gli scorsi anni, anche quest’anno la città ha retto senza problemi e i beni di prima necessità sono sempre stati disponibili a ogni ora della giornata.

 

 

Il camping antistante l’area concerti si snoda lungo la zona boscosa ai margini della città e discende gradualmente verso le rive dell’Isonzo, attrezzate con due “Metal Beach” e pronte a offrire refrigerio durante le ore più calde della giornata: essendo di origine alpina, le acque del fiume scorrono a una temperatura costante di 8-9 gradi e lo sbalzo termico tra “dentro e fuori” può essere notevole: niente di più adatto alle orde di metallari, notoriamente refrattarie al caldo.
Già al secondo giorno la zona camping appare decisamente affollata e lo spazio tra le tende è poco generoso; ciononostante le toilette chimiche sono numerose e i punti acqua (docce e acqua potabile) sono frequenti, il che genera di tanto in tanto il pantano inevitabile tipico dei festival estivi: a questo riguardo bisogna menzionare che ogni giorno, da domenica a giovedì, è avvenuto il tradizionale temporale pomeridiano con la medesima sequenza: prime nuvolaglie e afa insostenibile alle 11 di mattina, scariche di acqua e colpi di vento tra l’una e le tre, e poco prima del tramonto il cielo si liberava sistematicamente lasciando spazio a tramonti fenomenali e a un’umidità micidiale. Un plauso agli organizzatori che dotati di idrovore e truciolato sono riusciti a rendere vivibile il camping e a evitare il più possibile che l’area concerti diventasse una trappola mortale di sabbie mobili e pozze senza fondo.

Due gli stage, divisi da una rete e uno stretto passaggio che costeggia un vecchio casinò di epoca Yugoslava in disuso e che ospita l’immancabile metal market. Nota di demerito per quest’ultimo, mai povero come quest’anno. Pochi gli stand, tutti di una genericità sconcertante e alcuni persino totalmente fuori contensto che vendevano paccottiglia come cuscini di peppa pig e magliette di Jay-Z. Ben fornito lo stand del merchandising ufficiale, con il Metal Days capace di griffare gli oggetti più impensabili, ma decisamente deludente la sezione dedicata alle band – ma questo effettivamente non dipende direttamente dalla gestione del festival. Triste vedere poche maglie di nemmeno la metà delle band in line-up e con taglie decisamente poco appetibili: L praticamente non pervenute, un errore da principianti considerando che è probabilmente la taglia più diffusa tra il pubblico target del festival.

 

 

I braccialetti settimanali sono andati terminati quasi immediatamente, costringendo molti degli intervenuti a vestire un braccialetto temporaneo e a immettersi in una fila chilometrica in un secondo momento per farsi dare il braccialetto di stoffa.
Come in molti altri festival nel mondo, i contanti sono banditi per questione di sicurezza e sono sostituiti da una carta magnetica che bisogna caricare presso appositi punti sparsi per la zona concerti e il metal market: purtroppo quest’anno il sistema ha mostrato i propri limiti e i dipendenti dei punti di ristoro sono spesso piombati nel caos più assoluto tentando di far fuzionare le tessere a dovere. A proposito di ristoro, ennesima imbarazzante prova di limitatezza del “menu” in area concerti: chi non sopporta pizza, pollo fritto, patatine fritte o pentoloni marcescenti di spaghetti orientali strafritti farebbe meglio a portarsi un panino da casa.
Per il resto, festival che si è ripreso dallo scandalo dei furti narcotizzati di 3 anni fa al meglio e che si dimostra adatto a ogni genere di pubblico: tranquillo, piacevole, ordinato e senza gli eccessi di eventi circensi come Wacken o Roskilde. Un po’ altalenante la qualità dell’offerta musicale di quest’anno, ma ogni band è stata trattata con dignità e seguita a dovere, che fosse l’ultimo degli emergenti alle 3 di pomeriggio o che fossero i Blind Guardian. E visto che siamo in tema, le guardie e la security si sono dimostrate efficienti e assolutamente non intrusivi, in sintonia con le precedenti edizioni del festival.
Dopo le lamentele incorse due anni fa sull’affollamento eccessivo di addetti stampa, tra cui fotografi nel pit armati di soli telefoni cellulari, quest’anno la selezione è stata maggiore e la qualità del servizio di informazione ne ha giovato. L’area stampa è apparsa pulita e ordinata anche se leggermente disorganizzata.

 

 

In molti si chiedono che senso abbiano gli Einherjer nel 2016. La band norvegese, pioniera in un certo senso del folk/viking metal, ha avuto una storia fatta di fugaci alti e di notevoli bassi, il tutto immerso in oltre una ventina di anni di tiepido rispetto offerto, e a volte concesso, da parte del fandom del pagan scandinavo.
Il sole procede la sua corsa verso l’orizzonte e in un’area concerti bollente inizia a formarsi il primo fronte dinnanzi alle transenne: per tutta la durata del concerto sarà l’unica fila realmente compatta tra gli astanti e lo spazio si rivela talmente generoso da ospitare una leggendaria “rowing pit” a un passo dalla band. Gli Einherjer hanno fatto il loro tempo e si vede, nonostante la notevole energia sul palco e la curiosa scelta di basare l’intera setlist su Dragons of the North. Niente periodo folk e nessuna citazione al paganrock depressivo degli ultimi anni. No, Dragons of the North. Probabilmente in quanto è uno dei dischi più cantabili, sebbene Odin Owns Ye All abbia più doti da live, e probabilmente perché è la scelta più sicura. Chi ha sfidato i bollori del pomeriggio per arrivare dinnanzi al palco è probabilmente chi degli Einherjer conosce vita morte e miracoli ed è stato in grado di abbracciarsi durante Ballad of the Swords oppure cantare a gran voce Dragons of the North. Prova niente male per essere gli Einherjer, ma di certo hanno lasciato un ricordo abbastanza flebile nell’economia dell’intero festival.

 

 

Particolarmente convincente il concerto dei tedeschi Varg, che complice un gioco di luci di notevole impatto è riuscito a trascinare sullo sterrato una quantità di pubblico superiore rispetto persino alle band successive; il successo è certamente da addurre al tipo di metal suonato, tipicamente festaiol-germanico ed è stato un piacere vedere le folle dimenarsi al ritmo di Rotkäppchen o della più classica Wir sind die Wölfe, macchina da guerra live che ha catturato sguardi persino dagli stand alimentari 200 metri più indietro.

 

 

Pentacolo sullo sfondo e simboli esoterici intagliati in ogni dove danno il benvenuto agli israeliani Melechesh, tanto desiderati dal pubblico ormai stordito dagli Incantation e voglioso di perdersi nelle melodie assiro-mediorientali dell’ultima band della giornata.
Suonare contemporaneamente ai Marduk non è propriamente condizione ottimale per dei black metaller, eppure alle prime battute di “As Pendulum Speaks” dalla folla si leva un ululato di consenso. Devo comunque segnalare una resa audio fastidiosamente ovattata sia al centro del (mosh)pit e sia ai lati, al quale sono seguite un paio di battute confusionarie specialmente durante “Tempest Temper Enlil Enraged” e la spettacolare Rebirth of the Nemesis, con la quale si è concluso il secondo giorno del Metal Days. Notevole il ripescaggio di Deluge of Delusional Dreams che deve aver svegliato chiunque dormisse nel raggio di 10 chilometri e l’ottima Grand Gathas of Baal Sin dal mai troppo osannato Epigenesis. All is dust.

 

Calano le luci e sul Main Stage del Metaldays di Tolmino e dal buio più fitto emergono le ombre dei Demoni di Stoccolma. Toccano agli inossidabili Dark Funeral le luci della ribalta che, per l’occasione, si tingono di blu per amalgamarsi il più possibile all’enorme vessillo della band che campeggia dietro le pelli di Dominator.
Tutto l’ambiente richiama le tetre e sulfuree atmosfere dell’ultimo album “Where the Shadows Forever Reign”, disco (e tour) molto atteso dai fan della band scandinava dopo la fuoriuscita nel luglio del 2010 del carismatico front man Emperor Magus Caligola (seguito da li a poco dal bassista B-Force).
Curioso di vedere che cosa Lord Ahriman e soci avessero in mente per annichilire la vastissima platea del Metaldays mi avvicino alle prime file. Il suono non è subito dei migliori: un po’ troppo impastato sopratutto per le primissime file, ma in netto miglioramento nel corso del set. Un repertorio più che collaudato permette ai Dark Funeral di offrire al pubblico il meglio della loro produzione musicale, con un ovvio occhio di riguardo per la promozione del nuovo lavoro in studio.
Brani monolitici, suonati a velocità pazzesche quali “My Funeral”, “The Secret of the Black Arts”, “Atrum Regina” e “Vobiscum Satanas” hanno tenuto inchiodato il pubblico per tutta la durata del set. Una nota di merito va sicuramente data al cantante Heljarmadr: una piacevolissima sorpresa anche in fase live. Dark Funeral, promossi a pieni voti.

 

 

In un tripudio generale dai connotati più marcatamente calcistici che non musicali, abbiamo potuto assistere ad uno spettacolo davvero di pregevole fattura. Gli Skalmöld, sestetto di baldi ragazzotti proveniente dall’Islanda, hanno saputo ritagliarsi un proprio spazio e una propria identità nel variegato mondo del Viking Metal, principalmente grazie ad un attento lavoro che ha avuto nella qualità della proposta musicale il suo punto di forza. Il sestetto di Reykjavik, complice l’ondata di simpatia provata in Europa durante il campionato europeo di calcio, ha deliziato i supporter accorsi in gran numero, con un concerto di altissimi livello. Il pubblico ha apprezzato moltissimo, tributando alla band tre distinti Víkingaklappið (ribattezzato in salsa tricolore come“la canzone del geyser”) che gli  Skalmöld hanno apprezzato sinceramente. Spettacolo nello spettacolo.

 

 

Gli Arkona, per quanto mi riguarda, sono sinonimo di qualità. Ogni loro concerto a cui ho avuto la fortuna di assistere è sempre stato un evento musicale da ricordare, da conservare nella memoria da custodire gelosamente. Non ho ancora ben capito perché la band moscovita sia entrata con cotanta veemenza nel mio cuore; quello che posso dire  è che il risultato di cotanta passione, e l’esibizione di oggi lo conferma in toto,  resta sempre lo stesso nel corso degli anni e la risultante è sempre la stessa: uno spettacolo davvero sublime.
Gli Arkona sono una garanzia costruita su solide fondamenta cementate nel corso degli anni da una produzione musicale di assoluta eccellenza. Brani come “Slav’sja Rus’”, “Goi, Rode,Goi!” o “Yarilo”, tanto per citarne alcune, sono sempre in grado di alzare a dismisura il battito cardiaco non solo delle prime file, ma della maggior parte degli spettatori allo spettacolo dei Nostri. Masha, un vero animale da palco, è in grado di ammaliare e colpire, sedurre ed uccidere in un vortice di energia davvero unico e anche in questa occasione non si è risparmiata consumando ogni grammo di adrenalina per saltare, ballare o interpretare i pezzi scelti per il set. Anche quest’anno il Metaldays è stato conquistato. Спасибо Аркона!

 

 

Sedici canzoni per un’oretta abbondante di musica. Quattro demoni inferociti e un repertorio da cui pescare di tutto rispetto. Gli ingredienti per l’esibizione dei Marduk sono questi; il risultato è stato, rispettando le attese, una deflagrazione continua, un assalto frontale incontenibile, uno schiaccia sassi in corsa verso la vasta platea del Metaldays che non ha trovato ostacoli nel corse del suo cammino. La band si muove poco sul palco; Mortuus non gradisce particolarmente le luci della ribalta e se ne sta spesso nelle retrovie, intento a sputare tutto il serafico odio di cui dispone dentro al microfono. L’armata Marduk non conosce sosta e non concede riposo: assale frontalmente con “Frontschwein” e “Still Fucking Dead”, conquista terreno passando velocemente tra le fila nemiche tra un “Azrael” e un “The Levelling Dust”, spazza la residua resistenza con “Soul of Belial” e “Wartheland” fino ad annichilire il nemico oramai allo sbando con l’iconica “Panzer Division Marduk” e la conclusiva “Wolves”. Le armate vittoriose si ritirano, ai nemici macerie e devastazione. Che dire di più?

 

 

GALLERIE CORRELATE

ENHERJER
VARG
SACRED REICH
DARK FUNERAL
INSOMNIUM
ORPHANED LAND
SKÁLMÖLD
ARKONA
FLESHGOD APOCALYPSE
TESTAMENT

 

…a breve per la seconda e ultima parte del report!