Nevermore: live-report Milano 29 settembre 2005

Di - 11 Ottobre 2005 - 0:57
Nevermore: live-report Milano 29 settembre 2005

Diciamo la verità: This Godless Endeavor ha offerto l’ennesima lezione di classe da una band che non sembra possedere punti deboli, mettendo a tacere in un batter d’occhio calunnie della peggior specie, ma non era certo in studio di registrazione che si attendevano segnali positivi dai Nevermore. Gravato dal fardello di show non proprio esaltanti – non ultimo il disastro di due anni fa all’Alcatraz, tra suoni pastosi e un Warrel Dane affogato nell’alcool – il combo di Seattle aveva dannatamente bisogno di un tour di successo, che riportasse credibilità a un monicker troppo spesso oscurato nelle recenti passerelle che contano. Banale a dirsi, ma la prova del palcoscenico è sempre stata determinante, senza sconti per nomi blasonati o carriere decennali.

Questo esame, il più importante, è stato superato. Di scena al Rolling Stone di Milano, i Nevermore hanno letteralmente spazzato via i brutti ricordi del biennio 2003/2004 (a onor del vero anche il primo Gods bolognese si divise tra ombre e luci), confezionando un regalo che in tanti speravano ma pochi, a freddo, aspettavano di trovare: un concerto imperdibile. Elemento determinante – inutile negarlo – la ritrovata condizione di Warrel Dane, strappato alle grinfie dell’alcolismo e restituito in perfetta forma, con una ventina di chili in meno e la voce ristabilita dalle cure cliniche. A giovarne sono stati i brani più intimisti del repertorio, quali Dreaming Neon Black o la new-entry Sentient 6, emersi vittoriosi da una scaletta ben calibrata tra vecchie e nuove glorie. C’era curiosità in particolare per il battesimo on stage del nuovo materiale, tanto affascinante quanto impegnativo nella sua riproposizione – un ostacolo già incontrato ai tempi di Enemies Of Reality; se da quest’ultimo platter gli estratti si sono limitati alla potente title-track, closer annunciata e celebrata, il predominio del nuovo album si è concretizzato nell’inserimento di ben sei brani, con la (devastante) cinquina iniziale a movimentare le prime file e la straordinaria suite conclusiva a rapire gli occhi dei presenti, ipnotizzati da un capolavoro di perizia tecnica e sincronia tra i cinque componenti. La data meneghina era del resto una valida occasione per testare i progressi della coppia d’asce LoomisSmyth, già autrice di pregevoli spunti come inedito team di songwriter: positive impressioni rinnovate da una prestazione convincente, priva di sbavature, che ha sfoggiato un affiatamento non comune tra i due musicisti, quasi fossero compagni da sempre; e se le luci della ribalta sono, suo malgrado, costantemente (e meritatamente) puntate sul leader Jeff, è tuttavia d’obbligo una nota di merito per il fido scudiero Steve, tornato in fretta e furia dalla Bay Area dove era stato richiamato per problemi familiari: un esempio di professionalità e rispetto nei confronti dei fan, ricambiato con generosi applausi alla sua Bittersweet Feast.
Tra nuove e vecchie glorie del repertorio, non ultima una chicca come The Learning (per la verità salutata da una tiepida accoglienza), gli episodi più immediati si sono rivelati prevedibilmente quelli più riusciti, in virtù di una struttura più adatta all’esecuzione dal vivo: su questa base si fonda il successo di un lavoro come Dead Heart In A Dead World, tributato da una terremotante versione di Narcosynthesis e capace di far tremare le mura del locale con una corale partecipazione su The Heart Collector. Lo stesso ragionamento vale anche per le varie Beyond Within (una perla riscoperta), The Seven Tongues Of God e compagnia, corsia preferenziale per l’instancabile Van Williams, micidiale nei passaggi più tirati eppure mai invadente.
Suoni in vertiginoso crescendo hanno contribuito – una volta tanto – al successo dell’intera serata, che ha restituito al popolo di Neverhead una testimonianza senza dubbio più autentica del reale talento della band di Seattle, per cui la fortuna sembra finalmente soffiare a favore. Ritrovati.

Inutile dire che, di fronte alla performance degli headliner, il contributo dei due gruppi di supporto è passato inevitabilmente in secondo piano. Un peccato, perché sia Mercenary che Dew Scented si sono rivelati due nomi all’altezza della situazione, come conferma la discreta risposta del pubblico accorso al Rolling Stone. I danesi, chiamati a scaldare l’atmosfera, hanno offerto una discreta prova collettiva, beneficiando di suoni più che buoni e di un ispirato Martin Pedersen alla sei corde solista; buona la resa dei pezzi (per facilità catalogabili all’interno del filone melodic death scandinavo), anche se certe composizioni andrebbero snellite e ridotte in lunghezza, aspetto utile a scongiurare gli sbadigli tra le prime file.
Di ben altra pasta i tedeschi Dew Scented, band assolutamente anonima su disco ma dotata di una carica incontenibile che dal vivo non fa prigionieri. La staticità della proposta dei nostri, un ibrido tra death e thrash con forti reminescenze slayeriane, sembra riflettersi nell’assetto da plotone d’esecuzione che i cinque allestiscono sul palco, quasi fossero interessati unicamente a suonare il più veloce possibile. Il risultato è una sequenza di canzoni che non concedono tregua all’ascoltatore, pur evidenziando alla lunga pattern ripetitivi e scontati; le prime file gradiscono l’inaspettata tempesta di furia omicida, ben orchestrata dalla bacchette di un certo Reno Killerich, drummer dei veterani Panzerchrist noto ai più come ‘il più veloce batterista dell’universo’ – esistono le certificazioni. Se l’obiettivo era quello di scaldare l’atmosfera in attesa dei Nevermore, la missione si può dire compiuta.

Federico ‘Immanitas’ Mahmoud

Setlist Nevermore:
01. Intro (Precognition)
02. Born
03. My Acid Words
04. Bittersweet Feast
05. Narcosynthesis
06. The River Dragon Has Come
07. Intro (Ophidian)
08. Beyond Within
09. Dreaming Neon Black
10. The Seven Tongues Of God
11. The Learning
12. Sentient 6
13. The Sound Of Silence
14. The Heart Collector
15. Final Product
16. Intro (Noumenon)
17. This Godless Endeavor
18. Enemies Of Reality